Cimabue, Giotto, Pietro Lorenzetti, Simone Martini. Le due chiese – superiore e inferiore – di San Francesco sono un compendio unico dell’epoca più sfolgorante dell’arte italiana. Una guida per decifrare questo straordinario viaggio nello splendore e per capire perché Assisi, nel XIII e XIV secolo, ha calamitato gli artisti più significativi della scuola italiana.

VALENTINA PETRUCCI / MERIDIANI

Sulle pendici del Subasio, l’armonia nasce dal contrasto. Assisi, acropoli dello spirito, dove la pietra e il colore modellano il paesaggio, è testimone di un dialogo perenne tra natura, creazione umana e fede. È nella basilica, cuore pulsante della spiritualità francescana, che si compie il rinnovamento dell’arte e della pittura europea. Tra il Due e il Trecento, le pareti delle due chiese sovrapposte accolgono i massimi artisti italici: da Cimabue, maestro della tradizione bizantina, a Simone Martini, interprete di un’eleganza cortese, a Pietro Lorenzetti, pensatore in immagini, fino al misterioso Puccio Capanna. Senza dimenticare il più noto ciclo delle Storie di san Francesco, capolavoro di stile giottesco, anche se l’attribuzione a Giotto stesso è dibattuta tra gli studiosi, aprendo un varco affascinante nell’officina dell’arte medievale. Qui, la pittura italiana fa un balzo prodigioso, lasciando il rigido formalismo bizantino per aprirsi a un nuovo realismo.

Non solo affreschi, ma un’epifania artistica che segna l’alba di un’epoca, l’affermazione di una nuova coscienza figurativa. Cimabue, ultimo grande interprete della tradizione bizantina, infonde nelle sue figure un’emozione e una drammaticità nuove, prefigurando il pathos che caratterizzerà l’arte rinascimentale. Il ciclo francescano, attribuito a Giotto o alla sua scuola, rompe gli schemi, anticipando il Rinascimento nella rappresentazione dello spazio e dell’uomo, aprendo la strada a una nuova concezione della pittura come finestra sul mondo.

Ma perché tanti artisti di tale calibro qui, ad Assisi, una piccola cittadina umbra lontana da Roma? La basilica non è un semplice santuario, non è un luogo come tanti dove arte e fede si incontrano; la basilica, voluta dal Papato – era il Papa a decidere, non i frati – rappresenta una committenza, che unita al simbolo del luogo, attrae artisti da ogni dove. La costruzione, avviata appena due anni dopo la morte di Francesco, fu una mossa strategica. Il Papato voleva appropriarsi della figura del santo, trasformandolo da simbolo di contestazione a strumento di controllo. La grandiosità della basilica, la sua ricchezza decorativa, dovevano testimoniare la potenza e la legittimità della Chiesa, assorbendo il messaggio francescano in una cornice di magnificenza. La scelta di Assisi, luogo natale di Francesco, non fu ovviamente casuale. Il Papato voleva legare indissolubilmente la figura del santo alla sua autorità, trasformando la città in un centro di pellegrinaggio controllato. La basilica doveva diventare un polo di attrazione per i fedeli, un luogo dove la devozione popolare potesse essere incanalata e gestita, dimostrando la magnificenza della chiesa consolidando il suo prestigio, che pure fu contestato da san Francesco, agli occhi del mondo.

La storia pittorica inizia nella chiesa inferiore, a metà Duecento, con un maestro umbro anonimo, testimone di una cultura figurativa ancora legata alla tradizione. La superiore, dopo splendide vetrate d’Oltralpe, attende il suo momento. Arriva l’affresco, forse una tecnica più umile del mosaico e della scultura, ma usato in modo totale, dipingendo ogni spazio con materiali preziosi. Ad Assisi, si passa dal metodo delle « pontate » a quello delle « giornate » Questo cambiamento tecnico permette all’artista di dipingere più lentamente, testimoniando l’evoluzione di un linguaggio artistico in divenire.

Il carattere internazionale della basilica spiega perché la decorazione inizi con maestranze d’Oltralpe, in uno stile tra Londra e Parigi, espressione di una cultura figurativa europea. Come ben spiegò Hans Belting, storico dell’arte tedesco, questi dipinti ricordano le decorazioni (quasi perdute) delle cattedrali gotiche, dove pittura, scultura e architettura si fondono in un’unità organica. La fuga di archi, completate da figure, le rosette su fondo blu, le aureole a raggiera, tutto nasce qui e verrà adottato da tutti, diventando la norma per l’arte del XIV secolo, fino a quando Cennino Cennini ne codificherà l’uso nel suo Libro dell’Arte.

Dopo una breve parentesi di un pittore romano, forse Jacopo Torriti, fedele al modello d’Oltralpe, arriva Cimabue che lo segue, ma con variazioni importanti. Ciò dimostra che la decorazione della basilica superiore non fu un processo lungo e frammentato, ma un progetto unitario, guidato dall’illusionismo gotico, e completato in pochi anni. In tutta la chiesa, le pareti alte hanno motivi architettonici dipinti, come nel transetto, mentre nella navata tornano idee di Cimabue: mensole, decorazioni, che lui imita dai mosaici romani. Cimabue rifiuta lo stile gotico e introduce elementi decorativi antichi e medievali, ispirati da Roma, testimoniando una coscienza storica che si apre al dialogo con il passato. Cimabue, erede di una tradizione millenaria, piega l’eredità bizantina alla sua volontà, infondendo nelle sue figure un pathos e una drammaticità nuove.

Altrettanto organico è il programma iconografico. Nasce da un francescanesimo diverso, dove molti chierici sono colti e il possesso di beni è accettato. Figura chiave è san Bonaventura, nei cui scritti le idee di san Francesco diventano un percorso mistico individuale. E a lui e al cardinale Matteo d’Acquasparta che si ispirano le immagini. La decorazione fu probabilmente completata sotto Niccolò IV, primo papa francescano, noto per l’amore per Assisi. Si pensa che la decorazione della basilica superiore sia stata avviata sotto un precedente pontefice e completata durante il suo regno. Sarebbe lui il committente di Cimabue, che raffigura i temi chiave della devozione francescana: la passione di Cristo, Maria, gli apostoli e gli angeli. Con Assisi, Cimabue, ormai maturo, affronta la sfida più grande. Lo fa con vastità di idee e capacità di coordinamento, creando un risultato unitario. Visionario e irrazionale, una tecnica sublime, una pittura passionale, dove un movimento continuo scuote le figure, raggiungendo l’apice nelle scene drammatiche.

Il ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco, capolavoro di stile giottesco, è una svolta epocale. L’autore, Giotto o un suo seguace, abbandona fondi oro e figure piatte per creare uno spazio tridimensionale, abitato da personaggi vivi. La sua attenzione alla natura, alla luce e all’espressività dà alle scene una vitalità nuova, aprendo la strada a una rappresentazione più umana e realistica del sacro. L’autore non solo racconta la vita del santo, ma ne esplora la dimensione umana e spirituale. Nella Rinuncia agli averi, il giovane Francesco, nudo e fragile, si contrappone al padre adirato. Il vescovo lo protegge, creando un gioco di linee e volumi che sottolinea la drammaticità. La scena è carica di tensione, ma anche di umanità che avvicina il santo allo spettatore, rendendolo partecipe del suo dramma interiore. L’opera, chiunque ne sia l’autore, rappresenta una svolta. La sua rivoluzione, basata sull’osservazione della natura, sullo spazio tridimensionale e sull’espressività, ha influenzato generazioni di artisti, aprendo la strada al Rinascimento, affermando una nuova concezione dell’arte come strumento di conoscenza e interpretazione del mondo.

Gentile Partino da Montefiore aveva fiuto per i talenti. Legato pontificio, eminenza grigia della curia, si lasciò sedurre dalla grazia senese, chiamando a raccolta due stelle di prima grandezza: Simone Martini e Pietro Lorenzetti. Simone Martini, l’aveva capito subito il cardinale, era un poeta del colore. Gli affidò le Storie di San Martino, e il pittore, con quel suo tocco leggero, trasformò la cappella in un arazzo di luce. Non santi, ma cavalieri erranti, avvolti in manti di lapislazzuli e oro, che compivano gesta di cortesia e pietà. La santità, per Simone Martini, era un’eleganza dell’anima, un riflesso della bellezza divina. Pietro, invece, era un uomo di terra. Con i suoi pennelli scavava nell’animo umano, e la Crocifissione, nel transetto sinistro, divenne un urlo silenzioso di dolore. Cristo, non più re trionfante, ma uomo martoriato, specchio delle nostre miserie. Pietro non cercava la bellezza, ma la verità, quella che scuote le coscienze e apre gli occhi.

V.P.