Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 si è nutrita di disperazione, travolta dalle notizie di guerra e dai bambini “sterminati”, mentre essa stessa è vittima di una nuova onda di odio. La Senatrice racconta della donna che è diventata oggi, tra scorta, famiglia e la nascita di una bisnipote.

SILVIA BOMBINO / VANITY FAIR

“Lo vedo sempre. Sono io, quella.” Liliana Segre parla di quel numero, il 75190, tatuato sul suo avambraccio, e in pochi secondi liquida il dilemma di una vita: essere la giovane di 13 anni deportata e insieme una signora milanese, con un marito, tre figli, un lavoro. Due donne che per molto tempo non si sono parlate. “Ora conviviamo”, dice la senatrice a vita, che oggi ha 94 anni – uno trascorso ad Auschwitz, in silenzio, e 30 a testimoniare gli orrori della Shoah. “Convivo da tempo con quella ragazzina. Tutto sommato mi sembra di aver avuto una vita all’inizio terribile, ma anche molto interessante”. La “vita interessante” è quella che conosciamo di più: l’esclusione dalla scuola elementare per le leggi razziali fasciste, la fuga in Svizzera fallita, il carcere, il binario 21, Auschwitz-Birkenau, l’uscita dal Lager nel gennaio 1945, la “marcia della morte” e il ritorno a Milano mesi dopo. Della donna sopravvissuta, invece, sappiamo meno. Qualche aspetto più intimo lo rivela il documentario Liliana di Ruggero Gabbai, che è stato presentato a Milano il 12 novembre. “Ma abbiamo girato prima del 7 ottobre”, precisa la senatrice. “Io non sono più neanche quella persona, sono diventata un’altra”.

Iniziamo dalle due Liliana: in un toccante discorso al Parlamento europeo nel 2020, aveva detto: “I ricordi di quella ragazzina che sono stata non mi danno pace”. Come convivono, in Lei, queste due persone?

Stavo smettendo di testimoniare, ero stanca. Erano trent’anni che giravo per le scuole e raccontavo quella ragazzina, mi ero già riappacificata con lei. Chi arriva alla mia tarda età, sa che non si è sempre gli stessi: ci sono delle fasi, che sono dovute ai tempi e che, nel mio caso, sono cambiati almeno dieci volte. Ora convivo con quella ragazzina che sono stata, con quella famiglia che avevo e che non ho avuto più, con quella indifferenza che ho sentito intorno a me e che sento ancora.

È stato l’amore a salvarla?

Sicuramente. Quando sono uscita dal campo, oltre a essere un animale ferito e sopravvissuta per caso, ho trovato intorno a me un mondo indifferente, un mondo uscito dalla guerra che non aveva voglia di sentire altre tragedie e tristezze, e sono stata zitta nel mio profondo silenzio per 45 anni. Che sono lunghi a passare, anche se non hai dei segreti. Anni in cui non mi sentivo assolutamente di parlare, perché non c’erano orecchie adatte per sentire. Poi sono guarita da quelle ferite più profonde, e sono guarita perché sono stata amata. La parola “amore” andrebbe scritta dappertutto.

Nel documentario Liliana, che è uscito a novembre scorso, Lei dice che ha sofferto di depressione. Come L’ha affrontata?

Stavo male. Sono stata portata da un medico che allora curava “i matti”, Franco Basaglia non aveva ancora sconvolto il mondo della psichiatria. Lui capì qualcosa di me, mi diede delle medicine e disse: “Signora, quando si dimenticherà di prenderle vorrà dire che starà meglio.” Mi sono ricordata di prenderle almeno per due o tre anni, poi me ne sono dimenticata, come aveva detto il professore: ero guarita. A 50 anni, quindi già avanti, andai a lavorare con mio zio, che mi aveva adottato, in una piccola ditta di tessuti che lui portava avanti da solo. Non era convinto che io sapessi fare qualcosa, cominciai con grande umiltà ad attaccare francobolli. Ho lavorato lì fino a 82 anni.

Prima dei 50 anni era stata solo una mamma?

Questa domanda è un po’ imbarazzante, dovrebbe farla ai miei tre figli. Io li amo molto e loro mi amano per fortuna moltissimo, però hanno il peso di avere questa mamma e non un’altra. Ho conosciuto mio marito Alfredo che non avevo 18 anni, mi sono sposata a 20, poi è nato Alberto. Ero contenta di lasciarlo e di andare a spasso con mio marito più che stare a fare la mammina devota con il neonato. Che, poverino, era buonissimo, ma io preferivo la coppia piuttosto che fare la mamma. Solo dopo ho imparato, con gli altri due figli sono stata più all’altezza, ma alla fine non lo so. Ultimamente ho chiesto a loro: da 1 a 10 quanto mi meritavo? Mi hanno dato 3. Non devo essere stata un granché.

Ha amato tantissimo suo marito Alfredo, suo conforto quando tornava a casa dopo le testimonianze. Quando è scomparso, chi la aspettava?

Non ho una risposta per questo. Quando tornavo a casa, avendo rievocato al 70 per cento i miei ricordi – perché nessun sopravvissuto ha trovato in nessun vocabolario le parole per raccontare la Shoah, o è un istinto di noi sopravvissuti di non raccontare oltre qualche cosa di quello che abbiamo visto – trovare un uomo che mi diceva “amore mio, com’è andata? Vieni qui”, era come quando su una ferita ti mettono, invece di una medicina che brucia, una cosa che ti calma e ti rilassa. Era molto importante. Quando sono rimasta senza di lui comunque non potevo smettere. E non mi ha lasciata sola, ho tanti ricordi, tutto l’amore che ci siamo reciprocamente dati.

Parliamo della Liliana di oggi. Lei è una donna di pace: a Rondine, in provincia di Arezzo, nel 2020 fece la sua ultima testimonianza. Un posto magico, che mette insieme persone diverse che nel mondo storicamente non si amano: serbi e croati, tutsi e hutu, palestinesi e israeliani. Pensa che oggi possiamo dare ancora una possibilità alla pace?

Mi fa questa domanda dopo il 7 ottobre. Prima di allora avrei risposto in modo completamente diverso. Quando ho conosciuto Rondine, quel piccolissimo borgo che stava diventando la cittadella della pace, mi ha rapito: nella bellezza del paesaggio toscano persone di buona volontà uniscono da decenni quelli che a casa loro sarebbero nemici. Mi dava un senso di speranza… Ora, dopo il 7 ottobre, non sono quella di prima, ma una che ha sofferto enormemente del 7 di ottobre, e dell’8 di ottobre, e di tutti i giorni a seguire fino a oggi. Seguo la tv, i giornali, con avidità dolorosa. Mangio ogni giorno tristezza, bile, pessimismo, disperazione, e soprattutto, da nonna, quelli che tragicamente mi fanno compagnia in questo periodo sono i bambini, tutti i bambini che per colpa degli adulti vengono sterminati e uccisi.

È difficile immaginare Liliana Segre senza speranza, perché Lei è stata quella che ha messo una gamba davanti all’altra durante la famosa “marcia della morte”.

Che cosa posso dire a questo punto della mia vita? Quella filosofia, quel modo di sopravvivere, quell’etica che mi faceva mettere una gamba davanti all’altra ce l’ho anche ora. Ma è la realtà intorno a me che mi paralizza, io provo ad andare avanti ma trovo degli ostacoli tali…

A 14 anni, durante quella famosa marcia, dopo il lager, lei non ha raccolto la pistola del suo carceriere che si stava spogliando di armi e divisa. Ha detto: “In quel momento, non vendicandomi, ho scelto di essere libera”. Pensa ancora che la vendetta sia una prigione?

Non sono per la vendetta: se si parla di pace, la vendetta non ha spazio. Quel momento l’ho presente come poche altre cose nella mia vita, era un momento incredibile tra la schiavitù e la libertà. Se avessi raccolto quella pistola, sarei diventata uguale al mio assassino: ho scelto che non avrei mai saputo fare una cosa del genere.

Oggi presiede la commissione per la lotta all’intolleranza, al razzismo, all’antisemitismo e all’istigazione all’odio e alla violenza.

Mi interessa soprattutto l’incitamento all’odio. Io l’odio l’ho conosciuto prestissimo, talmente presto che faccio fatica a ricordarmi la mia vita senza. L’ho provato sulla mia pelle, ha distrutto la mia famiglia. Eppure io non odio. Non potevo, una volta arrivata in Senato, non pensare a una commissione che avesse questo come suo fine.

Le è stata assegnata la scorta cinque anni fa. Si sente limitata o si è abituata?

All’inizio, devo dire la verità, mi sono sentita obbligata a qualcosa che non era per me: guidavo la macchina, ero estremamente indipendente. Adesso devo dire che non potrei più farne a meno, perché negli anni pian piano mi sono talmente affezionata e sono talmente grata agli uomini della scorta coi quali per mio carattere e per loro generosità si è creato un rapporto. A me fa piacere conoscere la loro famiglia e i loro figli e loro si comportano da figli, da nipoti, e non da soldati armati, come sono.

Ha paura, quando per esempio sente delle notizie sulle manifestazioni in cui la insultano, la minacciano?

Seguo, faccio querele, so bene che ho la scorta perché sono odiata e minacciata. Ma non ho cambiato di un pelo la mia vita, faccio tutte le cose di prima. Ho un’età tale che se un pazzo decide che non devo stare più al mondo… Ne ho passate così tante, se deve finire così, che finisca.

La sua famiglia è sempre stata agnostica. Lei ha detto di non credere in Dio. In che cosa crede?

Vorrei credere, sarei molto più in pace, visto che a 94 anni quanto possa ancora andare avanti non si sa… Invidio tutti quelli che hanno fede, qualunque fede sia. Purtroppo mi avvio a un momento cruciale della vita senza questo grande conforto. Chi lo sa, magari domani sarò diversa. Ma non parliamo di morte, parliamo di vita. A dicembre è nata la mia prima bisnipotina, una femmina dopo tanti nipoti.

È diventa bisnonna?

Sì! È figlia di Edoardo, figlio di Alberto, che lavora a Chicago. Verrà a febbraio a farsi
conoscere.

Sappiamo il nome?

Come secondo nome si chiama come me. Io ho detto: “Siete matti”. Ho tanti appuntamenti ma non mi perdo le videochiamate con loro, almeno due volte alla settimana.

Ha un’agenda fittissima, tra impegni istituzionali e privati. Come fa?

Vado a Roma non con regolarità perché mi pesa tantissimo, però vado a fare il mio dovere. Poi ho la vita privata di una donna piena di interessi come sono, ho l’abbonamento alla Scala, per esempio. Vado al cinema. Mi piace giocare a carte, l’ho imparato da bambina con le nonne.

A che cosa gioca?

Potrei giocare anche a scopa, rubamazzo, però preferisco il burraco e il bridge, il mio gioco preferito, con le amiche.

Quante ne ha?

Difficile dirlo, la maggior parte o sono morte o non stanno un granché. Però io non sono l’aquila che sta in cima alla montagna, sono una gallina che razzola nel pollaio: le ho le amiche, e parecchie. Quelle con la A maiuscola sono tre.

Lei ha detto che l’amore l’ha salvata. Eppure quando è tornata da Auschwitz ha detto che non era una donna…

Ero una vecchia.

Era scheletrica. 

In realtà dopo quattro mesi in Germania sotto gli americani avevo mangiato in modo frenetico. Una bulimia che è durata parecchio, divoravo tutto il giorno. Sono tornata a Milano ingrassata 30 chili, forse di più. Ero una selvaggia piuttosto grassa, villana, maleducata, che non stava più a tavola, nel letto a dormire, che diceva parolacce.

Ha incontrato suo marito Alfredo, in spiaggia, a Pesaro: che cosa sapeva dell’amore?

Non avevo ancora 18 anni e non sapevo niente, men che meno dell’amore. Poi ho capito che non sapere, nel Lager, mi aveva salvato da situazioni sul filo del rasoio. Ero una sciocca ragazza a cui un marito insegnò tutto. Mi ricordo il primo bacio con lui: era sbalordito che non sapessi neanche baciare, non lo avevo mai fatto. Fu molto bello.

S.B.