Oltre che geniale statista, il conte piemontese fu un imprenditore agricolo e non ebbe paura di innovare.
“In mezzo alle risate spiegò una perseveranza, un’energia, un’audacia, uno spirito amministrativo e nello stesso tempo d’invenzione, che sarebbero stati sufficienti a trasformare la fisionomia di un regno. Bisognava vederlo all’opera: si alzava all’alba, visitava le stalle, era presente alla partenza dei lavoratori, sorvegliava il loro lavoro in piena canicola sotto il sole ardente”.
A descrivere così Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), alle prese con la grande tenuta di Leri nel Vercellese, fu un suo amico intimo, lo scrittore ginevrino William De La Rive che gli sopravvisse abbastanza da scrivere la sua biografia. Camillo agricoltore? Sì, perché il giovane, figlio amatissimo ma cadetto senza eredità (il patrimonio sarebbe andato al primogenito Gustavo, secondo le leggi dell’epoca), doveva trovare da solo un sostentamento e farsi strada.
La sua vocazione non era certo la carriera militare che abbandonò poco più che ventenne, nel 1831 con grande sollievo dell’esercito, che poco tollerava questo ribelle che pretendeva di scegliere a quali ordini obbedire e non sapeva stare al suo posto.