In Italia la cultura del gioco ha radici profonde tra biglie, trottole, briscola e tressette. Un’eredità che non va dimenticata.
…O piuttosto c’era una volta un gruppo di bambini con i calzoncini corti, le maniche di lana e gli scarponcini dei fratelli maggiori. Non avevano Internet e nemmeno i videogiochi eppure si divertivano un mondo e solo la fine del giorno e le urla della mamma riuscivano a fermarli. Lo facevano con giochi semplici, innocenti, di chi si accontentava di quello che aveva. Era l’Italia degli anni 40, quella di prima e dopo la Seconda guerra mondiale.
Si giocava a pallone, certo, anche se a volte la palla era fatta di stracci. E qualche fortunato aveva le biglie. Ma per lo più ci si arrangiava. «Ciò che accomunava i giochi di una volta», spiega a RADICI Giuseppe Giacon, vice presidente dell’Associazione Giochi Antichi (www.associazionegiochiantichi.it), «era la ricerca di un benessere attraverso la relazione umana. Si giocava in strada e ci si adeguava agli imprevisti, cambiando le regole o il campo pur di divertirsi insieme». Ogni epoca e ogni posto ha avuto i suoi giochi, figli del tenore di vita, delle abitudini, dei mestieri più diffusi. «Ad esempio a causa della Seconda guerra mondiale e della chiamata alle armi molti paesi si sono svuotati e tanti passatempi sono stati ereditati dai bambini e dalle donne. In Piemonte, nel paesino di Farigliano in provincia di Cuneo, c’è un gioco chiamato Bije ed esclusivamente femminile: si gioca con dei birilli dalla forma fallica e abbatterli rappresentava una sorta di rivendicazione sociale. Fino agli anni Settanta la zona dove si svolgevano quelle partite era addirittura interdetta agli uomini». Nonostante tutto qualche antico gioco, inevitabilmente, è scomparso. Vittima delle nuove mode o superato inesorabilmente da desideri d’altro tipo. «Quando il gioco scompare vuol dire che ha perso la sua dimensione sociale. Oppure che non c’è stata una tradizione orale che l’ha tramandato ricordandone le regole. O, ancora, che è stato vietato dalla pubblica autorità. Viviamo oggi la grande contraddizione che giochi come la Morra, dove in ballo c’era al massimo un bicchiere di vino, siano vietati nei luoghi pubblici mentre una delle più grandi devastazioni della nostra società come le slot machine sono diventate un azzardo legalizzato».
Quattro amici al bar
Il regno assoluto dei giochi per gli adulti di una volta, però, erano sicuramente i bar e le osterie. Si giocava a calcio balilla, il biliardino nato tra la Prima e la Seconda guerra mondiale probabilmente in Germania. Chiamato così su e giù per lo Stivale usando un termine dielettale genovese “balilla”, che significa “monello”. In onore, forse, dell’undicenne Giovan Battista Perasso, detto “Balilla”, che a Genova diede il via alla rivolta del 1746 contro gli austriaci lanciando una pietra contro i soldati asburgici. Nei locali pubblici si giocava anche ai dadi, temuti e perseguitati dalle autorità perché “si vinceva o si perdeva a causa della sorte”. Soprattutto, però, le osterie erano il regno dei giochi con le carte. Partite interminabili e avvincenti per generazioni e generazioni di persone, di qualsiasi età e condizione sociale. Tra tavolini spogli, nuvole di fumo, qualche imprecazione e l’inesorabile scoccare della giocata vincente. Era un Paese maschile, quello delle carte e dei bar, ancora povero per andare al cinema e troppo perbene per cercare avventure d’altro tipo. Ore e ore, quattro amici o sconosciuti, un bicchiere di vino, una sigaretta, e quaranta carte divise in quattro gruppi, i “semi”: coppe, denari, bastoni e spade, corrispondenti al clero, ai mercanti, ai contadini e ai nobili di medievale memoria. Carte napoletane, milanesi, piacentine, sarde, trentine, tutte con caratteristici disegni, fattezze e colori per una tradizione che è stata portata avanti da due mitiche aziende: la Modiano di Trieste e la Dal Negro di Treviso. Giochi antichi come la Primiera sono sopravvissuti e oggi, nei circoli sportivi, in qualche bar di periferia, sui treni magari, qualcuno ancora ci gioca. Si utilizza il mazzo di carte “italiano”, senza l’8, il 9 e il 10, e vince chi mette insieme quattro segni diversi (facendo primiera, appunto) con il punteggio più alto. Ben più fortuna, comunque, hanno avuto la Scopa e il suo figlioccio Scopone, la Briscola e il Tressette. Tutti, grandi e piccini, hanno ad esempio giocato almeno una volta a Scopa: in due o in tre, pure a quattro a squadre di due. L’obiettivo è fare più punti, accumulabili pulendo il tavolo (facendo Scopa) e sommando bonus vari. Simile è lo Scopone, che poteva essere pure “Scientifico”. La differenza è che si gioca obbligatoriamente in quattro a squadre di due e le carte invece che tre alla volta vanno distribuite tutte all’inizio, dieci per ognuno. A proposito dello Scopone artisti come D’Annunzio, Carducci e Leoncavallo coniarono il termine “Gioco degli dei”. Ed è passata all’italica memoria la mitica partita disputata sull’aereo di ritorno dal trionfante Mondiale di calcio spagnolo del 1982 tra il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, il commissario tecnico azzurro Enzo Bearzot e i calciatori Dino Zoff e Franco Causio. Se lo Scopone è divino, la Briscola è… cavalleresca. Addirittura, infatti, in suo onore è stato fondato il club de “I cavalieri della briscola rotonda”. Si gioca a due o a quattro e ogni carta, dall’1 al 10, ha un punteggio specifico. Vince chi fa almeno 61 punti sui 120 disponibili. Infine, il Tressette: antichissimo e diffuso soprattutto al Sud in tutta una serie di varianti e di regole. C’è indecisione anche sull’origine del nome, che pare derivi dal fatto che se si riusciva ad avere tre sette tra le proprie carte si otteneva un bonus. In generale, comunque, qualsiasi sia la variante presa in considerazione, si siedono in due contro due e si vince alla fine del seguente svolgimento: vengono distribuite tutte le carte, dieci a testa. Il giocatore con il quattro di denari gioca la prima carta, il “palo”, e successivamente gli altri ne mettono una a testa, sempre dello stesso segno. Le prende tutte quello che avrà calato la più alta. Lo stesso ricomincerà il giro, determinando a sua volta il palo. Scopa, Scopone, Briscola o Tressette: chi perdeva pagava la consumazione a tutti gli altri, con buona soddisfazione del barista. In mezzo, riti, scaramanzie, litigi e grandi attese per la partita del giorno dopo.
Biagio Picardi
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Nato a Lagonegro, un paesino della Basilicata, e laureato in Scienze della Comunicazione, vive a Milano. Oltre che per Radici attualmente scrive per Focus Storia e per TeleSette e realizza gli speciali biografici Gli Album di Grand Hotel. In precedenza è stato, tra gli altri, caporedattore delle riviste Vero, Stop ed Eurocalcio e ha scritto anche per Playboy e Maxim. Nella sua carriera ha intervistato in esclusiva personaggi come Giulio Andreotti, Alda Merini, Marcello Lippi, Giorgio Bocca e Steve McCurry.