Terzo volet sui 75 anni della Costituzione italiana. A 100 anni dalla nascita, la figura di don Lorenzo Milani. Prete ed educatore, don Milani, pur non partecipando alla stesura della Costituzione, ne ha vissuto tutta la forza umana, etica e culturale facendo di lui uno dei più grandi testimoni italiani del XX secolo. La sua più accesa eredità è racchiusa proprio nelle sue ultime parole rivolte ai suoi alunni: “La scuola non serve a produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente.” Quanto ci manca, oggi: nell’Italia senz’anima che, celebrando i 75 anni della Costituzione, spesso la tradisce.

La strada che sale sino a Barbiana è una striscia che si inerpica zigzagante sulle colline del Mugello. Quando arrivi in vetta, ancora oggi puoi vedere quello che si trovò di fronte quel giovane priore fiorentino di 31 anni la prima volta che salì quassù: una piccola canonica all’ombra di quattro alti cipressi e un grumo di case, una ventina in tutto, sparpagliate nei boschi lì intorno. 

È qui, in questo villaggio sperduto tra i monti, che Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, per tutti solo don Milani, fu esiliato il 7 dicembre 1954, un martedì, dicono i calendari. Credevano di zittirlo, di mettere a tacere quell’irriverente cappellano che a San Donato di Calenzano, nel 1948, aveva fondato una scuola serale popolare, libera, per gli operai e i contadini semianalfabeti della zona. La prima cosa che aveva fatto, entrando in classe, era stata staccare il crocifisso dalla parete.  

Questo simbolo non vi servirà. Non qui. La croce non deve essere sulle pareti di una scuola ma nel vostro cuore e nella vostra vita. Da questo vi riconosceranno.” 

Anche per questo, sei anni dopo, al termine di una serie infinita di screzi, contrasti e dissidi sul ruolo del prete nell’interpretazione del Vangelo, la Curia di Firenze lo spedì a Barbiana, più per vendetta che per punizione. Vi arrivò una mattina secca e senza nuvole, un rosario tra le dita nella tasca destra dell’abito talare e, nell’altra, una copia della Costituzione. “Il mio Vangelo laico”, come lo definirà spesso, da cui non si separò fino all’ultimo giorno della sua vita. A rileggerlo oggi, articolo per articolo, a 75 anni dalla firma della Costituzione e a cent’anni dalla nascita di don Milani, è possibile ricostruire la traiettoria morale e spirituale che ha illuminato la vita di questo prete e la sua personale pedagogia. Il risultato è una geografia laica e umanista che ha cambiato in modo radicale la maniera stessa di concepire l’educazione e la scuola italiana, lasciando in eredità molti agiografi, altrettanti censori, ma pochissimi eredi.  

Articolo 1: “(…) La sovranità appartiene al popolo (…)” 

È la sua stella polare, il suo primo comandamento, il Vangelo secondo Lorenzo, dove la sovranità va letta non come difesa protezionistica di identità chiuse ma come il diritto inalienabile ad autodeterminarsi, a costruirsi un futuro attraverso l’istruzione, che è, per definizione, popolare. Il popolo di don Milani è un popolo in cammino di ultimi, di emarginati come lui che durante la sua intera esperienza pastorale è stato tenuto al di fuori della chiesa tradizionale, da quell’élite che nessuno conosceva più di Lorenzo, figlio di una ricca famiglia ebraica fiorentina da cui si era allontanato in seguito a una precoce vocazione. Attorno a questa pietra angolare nascerà la scuola di Barbiana, sul modello di quella di San Donato ma con in più l’accento rivoluzionario, a tratti eroico, di un luogo fino ad allora rimasto fuori dalle cartine geografiche, senza acqua né corrente elettrica – ai tempi in cui vi salì don Milani neppure una strada – e che nessuno dopo di lui potrà più ignorare.

Articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (…) e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”

È un pensiero a cui don Milani credeva così tanto, da volerlo appendere su un cartello che campeggiava all’ingresso della scuola di Barbiana. Sopra c’erano scritte solo due parole in inglese: “I care”. Letteralmente: mi importa. O, meno prosaicamente, ho a cuore. Ovvero l’esatta nemesi di quel “Me ne frego” che, appena pochi anni prima, era stato motto e parola d’ordine del fascismo. Don Milani in questo è geneticamente, costituzionalmente, antifascista, fedele alla lezione di quella carta che sull’antifascismo ha affondato le sue radici.  

Articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica (…)” 

Cultura e ricerca per don Lorenzo non sono che due facce della stessa medaglia. Questa, in fondo, è la base del suo pensiero pedagogico: la testarda convinzione che non possa esistere l’una senza l’altra, in una sorta di umanesimo scientifico sul modello di Enrico Cantore che sarà alla base della rivoluzione tecnologica della Silicon Valley e anticiperà nuovi indirizzi di laurea sempre più ibridati e interdisciplinari. 

Articoli 33 e 34: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento (…); I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. 

Don Milani aveva in mente proprio questi due articoli mentre costruiva le fondamenta dell’esperienza barbianese: una scuola ostinatamente democratica, collettiva, inclusiva, priva di ogni punizione corporale (una novità assoluta per l’epoca) e, insieme, un modello che non escludeva ma, anzi, garantiva a tutti un’istruzione, a prescindere dalle possibilità e dalla classe sociale, fedele all’idea che tocchi alla Repubblica e, dunque, allo Stato, farsi carico dell’istruzione e dell’educazione dei propri studenti di ogni ordine e grado. È la base filosofica della scuola pubblica, intesa come aperta e accessibile a tutti, senza distinzioni. 

Articolo 3, primo comma: “Tutti i cittadini sono uguali senza distinzioni di (…) lingua (…)”

Non si può comprendere la lezione di don Milani se non si coglie il significato profondo di questa frase, che è anche un passaggio cruciale dell’opera forse più nota e citata del Lorenzo educatore: Lettera a una professoressa: “Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua. L’ha detto la Costituzione (…). Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione.”  

È il maggio del 1967, Don Milani morirà un mese dopo. L’anno successivo quella lettera fu ripresa e rilanciata dal Movimento studentesco diventando in breve un manifesto del ’68 in Italia, uno dei “testi sacri” di una nuova concezione educativa orizzontale che vede pasolinianamente nella lingua la chiave per uscire dall’analfabetismo ed emanciparsi da vecchi e nuovi padroni. 

Anche in questo don Milani fu un precursore, un visionario, a suo modo un profeta: vedeva cose che gli altri non riuscivano neppure a immaginare. E non si limitava a teorizzarle, le metteva in pratica. Eccola, la sua rivoluzione. 

Articolo 3, secondo comma: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale (…)”  

Nel 2008 Michele Gesualdi, uno dei primi sei allievi di don Milani a Barbiana, raccontò in un libro di rara grazia, Il ponte di Luciano, un episodio di molti anni prima in cui un “contadinello” di nome Luciano camminò per un’ora e mezza nel bosco per recarsi a scuola e, a un certo punto, si ritrovò davanti un fosso d’acqua a sbarrargli la strada. Decise di attraversarlo e, per poco, non morì affogato. Don Lorenzo allora si diresse furibondo davanti al sindaco di Vicchio e, brandendo la Costituzione, gli lesse l’articolo 3 d’un fiato chiedendo e ottenendo che fosse realizzata una passerella sul fosso. In questo aneddoto semplice, a tratti didascalico, c’è tutto don Milani, la carica simbolica delle sue battaglie, in difesa di quel metro quadrato di democrazia che gli avevano affidato e di cui lui si prendeva cura con fervore religioso e laicissimo trasporto. Credeva che questa fosse la sua missione.  

Articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli.” 

Questo è il don Milani forse più attuale e contemporaneo. Il don Milani pacifista o, più esattamente, il don Milani antimilitarista, l’uomo che, nel febbraio 1965, citerà esplicitamente l’articolo 11 della Costituzione nella celeberrima Lettera ai cappellani militari, in reazione al violento attacco dei cappellani militari toscani contro i giovani obiettori di coscienza. La sua risposta è uno dei più fulgidi esempi di passione morale e civile sull’argomento, con il quale don Lorenzo prende apertamente le parti dei ragazzi che, rischiando il carcere, disertavano la chiamata di leva obbligatoria. E lo fa senza ricorrere alla scorciatoia del messaggio cristiano, come ci si sarebbe aspettati da un prete, ma col potere detonante della Costituzione laica e repubblicana. Questa lettera gli costò una denuncia da parte di un gruppo di ex combattenti e un processo per apologia di reato. Durante il dibattimento, a cui non poté presenziare per l’aggravarsi del tumore che lo aveva colpito, scriverà una memoria difensiva sotto forma di lettera ai giudici – il suo marchio di fabbrica – nella quale metterà a nudo le ferite mai rimarginate della storia d’Italia, di un colonialismo senza scrupoli, di violenza e soprusi perpetrati dall’esercito con le armi in nome della difesa della patria e della nazione. Anche grazie a quella memoria don Milani fu assolto in primo grado. Morì prima della sentenza d’appello, il 26 giugno del 1967, ormai provato dalla malattia, a 44 anni, da innocente, da cittadino e uomo libero, non solo davanti alla legge.  

Cosa resta dell’eredità di don Milani, a distanza di 56 anni dalla morte? Una tensione morale e una lezione di civismo che non ha fatto in tempo a lasciare epigoni all’altezza, quasi che il suo pensiero fosse già allora troppo sporto in avanti per essere, oggi, raccolto e recepito. Il pensiero di don Milani bisogna cercarlo lì, in quel cantiere aperto di ideali e valori costituzionali che lui aveva reso carne e sangue, in questo borgo di pietre arse che è Barbiana, nelle mura di una scuola in cui questo prete di montagna ha imparato, per sua stessa ammissione, più di quanto abbia mai insegnato. Ed è stato moltissimo. Ha insegnato a tutti noi, atei, credenti, agnostici, non importa, il senso profondo della parola laicità come la forma più pura di rispetto e di difesa di ogni fede o dottrina. Uno così, in un’epoca di oltranzisti fanatici, retrogradi e bigotti, sarebbe ancora oggi, più di ieri, considerato un eretico del pensiero. E, per questo, più attuale e necessario che mai.

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Lorenzo Tosa, 35 anni, giornalista professionista, grafomane seriale, collabora con diverse testate nazionali scrivendo di politica, cultura, comunicazione, Europa. Crede nel progresso in piena epoca della paura. Ai diritti nell’epoca dei rovesci. “Generazione Antigone” è il suo blog.