Si è conclusa la missione italiana Mare Nostrum, che ha salvato oltre 150mila migranti in fuga dall’Africa. Al suo posto c’è Triton, la sua versione europea. Perché l’immigrazione non è solo faccenda italiana. Ma lo scopo della Ue è solo il pattugliamento delle frontiere.
Nella mitologia greca, Tritone era il figlio di Poseidone, dio del mare, e aveva la capacità di calmare o agitare le acque soffiando dentro una conchiglia. A lui è intitolata la missione europea che dal 1 novembre 2014 è stata avviata nel Mediterraneo come risposta ai flussi migratori provenienti dal Nord Africa.
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha accolto l’avvio di Triton come una grande vittoria per l’Italia: “L’Europa scende in mare”, ha dichiarato nella conferenza stampa di fine anno, sottolineando come l’onere che fino ad allora aveva gravato sulle spalle (e sulle casse) dell’Italia fosse finalmente passato a Bruxelles. A seguito del naufragio di un’imbarcazione carica di migranti davanti all’isola di Lampedusa, che il 3 ottobre 2013 provocò 366 morti accertati, il Governo Letta aveva infatti lanciato Mare Nostrum, un’operazione volta all’individuazione e al salvataggio di migranti nel Mediterraneo. L’iniziativa aveva suscitato molte polemiche nei confronti dell’Unione Europea, visto che la destinazione degli africani spesso sono altri Paesi dell’Unione e l’Italia è in molti casi solo la porta per raggiungerli: non è quindi l’immigrazione una questione europea, da gestire con mezzi e risorse di tutti gli Stati membri?
Triton appare dunque come la risposta che l’Italia attendeva, ma entrando nel dettaglio delle due operazioni si scopre velocemente che non è così. Prima di tutto esse differiscono nell’intento: Mare Nostrum era nato allo scopo di salvare vite umane, Triton mira invece al pattugliamento delle frontiere. Naturalmente in caso di naufragi scattano le operazioni di soccorso, ma non è detto che i barconi in difficoltà vengano effettivamente avvistati. Diverso, infatti, è anche il raggio d’azione delle due iniziative: se Mare Nostrum si estendeva fino alle coste libiche, i mezzi di Triton sono impiegati non oltre 30 miglia dalla costa italiana, per cui non coprono gli eventuali naufragi che avvengono oltre quella distanza. La differenza la fa anche il budget stanziato per le due operazioni, dato che i circa 9 milioni mensili messi a disposizione dall’Italia fino ad ottobre 2014, con Triton sono scesi a 2,9.
La conseguenza logica è che i mezzi impiegati non sono equivalenti, come afferma Viviana Valastro (Responsabile Progetti Minori Migranti di Save the Children in Italia), che nell’ambito di Mare Nostrum ha condotto personalmente due missioni a bordo: “La San Giorgio, ad esempio, era una nave anfibia, cioè ospitava al suo interno un’imbarcazione più piccola, con la quale si effettuavano le operazioni di trasbordo dai natanti in difficoltà, con una messa in sicurezza rapida e molto funzionale. Inoltre”, prosegue, “consentiva una presenza allargata rispetto all’equipaggio standard, e ciò permetteva di svolgere a bordo le operazioni di preidentificazione e di controllo sanitario, di cruciale importanza per la prevenzione della diffusione dell’ebola, ad esempio. Una capacità operativa che i mezzi di Triton almeno per ora non hanno”.
A dirla tutta l’Europa non ha mai nascosto la non sostituibilità di Triton a Mare Nostrum, ma anzi l’ha ribadita apertamente in più occasioni per bocca di Cecilia Malmström, ex Commissario europeo per gli affari interni. Bruxelles, in fin dei conti, non ha accolto le richieste dell’Italia. È pur vero quanto dichiarato dal ministro Alfano, che sempre nel discorso di fine anno annunciava “un risparmio per le casse italiane (col passaggio da Mare Nostrum a Triton, Ndr), con la spesa ridotta dai 114 milioni investiti dopo la strage di Lampedusa a zero« . Ma quei 114 milioni hanno contribuito a salvare più di 170mila persone (di cui circa la metà minori) e ad arrestare 728 scafisti. Anzi, nonostante quei 114 milioni, almeno 3419 esseri umani hanno perso la vita durante la traversata.
Adesso che succederà?
Prova a dare una risposta Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, porta d’Europa per eccellenza dei migranti africani. “Ci sarà un effetto invisibile. La prova dei tentativi di sbarco sono le persone salvate sommate ai cadaveri. Se non c’è più nessuno a contarli, i cadaveri aumentano e poi se li inghiotte il mare”.
Il naufragio dell’anno scorso a Lampedusa è un ricordo talmente ingombrante, che sull’isola lo si evoca con la data in cui avvenne, come si fa con le ricorrenze nazionali . “Il 3 ottobre non è la rivelazione di chissà che cosa”, prosegue il sindaco. “è solo una drammatica e straordinaria coincidenza che ha portato quei migranti ad affondare proprio quando erano arrivati. Ma prima della morte di quelle 366 persone, io avevo già lanciato un appello all’Eu, rimasto inascoltato. Allora in poco tempo avevo già contato 23 corpi sull’isola, e ognuno era il sintomo di un naufragio che sicuramente nascondeva altre vittime”.
In sostanza, senza un’operazione dedicata al salvataggio nel Mediterraneo, si ridurrà il numero di naufragi di cui verremo a conoscenza. Sono in molti, invece, a sostenere che proprio l’assenza di una simile operazione sia un deterrente ad imbarcarsi per gli africani, richiedenti asilo o “migranti economici” che siano. Ma i dati finora disponibili smentiscono questa ipotesi: nei primi due mesi dalla chiusura di Mare Nostrum, i migranti sbarcati sulle coste italiane sono circa 16mila, numero in linea con gli sbarchi del 2014.
L’impressione di Viviana Valastro è che “già adesso i trafficanti si sono semplicemente riorganizzati, come hanno sempre fatto in inverno, ripiegando su mercantili dismessi in partenza dalla Turchia, che quindi hanno una resistenza maggiore. Bisognerà vedere in estate, col mare piatto, se si tornerà alla normalità del pre-Mare Nostrum, quando i barconi arrivavano direttamente sulle spiagge siciliane”.
Secondo Giusi Nicolini, di fronte agli appelli di Lampedusa e delle ong come Save the Children, Amnesty International e Caritas, “l’Italia non ha applicato alcuna strategia se non quella del risparmio, mentre l’Europa è semplicemente tornata a chiudere gli occhi”. Eppure a suo avviso un modo di gestire questi flussi ci sarebbe: si tratta del Piano di Ammissione Umanitaria, da lei stessa presentato a Bruxelles insieme al deputato Pd Luigi Manconi, che prevede per i migranti la possibilità di richiedere lo status di rifugiato già nei Paesi di transito (Giordania e Libano, Egitto e Sudan). Le ambasciate degli Stati Europei potrebbero concedere agli aventi diritto un visto per attraversare il Mediterraneo in condizioni legali e sicure, evitando gli attuali viaggi della speranza. “Così certo non stroncheremmo del tutto i traffici di esseri umani, ma la legalizzazione li ridurrebbe al minimo fisiologico”, commenta Nicolini. “La convenzione di Dublino, che impone al migrante di inoltrare la richiesta d’asilo solo al suo arrivo in Europa, di fatto legittima la tratta di esseri umani: noi diciamo al somalo o all’eritreo -Tu hai diritto all’asilo ma per richiederlo devi arrivare qui – E come ci si arriva, qui, se non con i barconi? Peraltro, a fronte dei costi per il cosiddetto pattugliamento delle frontiere, il nostro piano costerebbe un biglietto aereo a rifugiato”.
Ma esiste realmente la volontà politica di risolvere il problema? È scettica Agata Ronsivalle, una ragazza siciliana che insieme all’amica Nawal Soufi passa regolarmente diverse ore alla stazione di Catania per aiutare i richiedenti asilo a proseguire il loro viaggio verso nord. Da circa un anno le due giovani si occupano dell’acquisto dei biglietti del treno e forniscono ai migranti generi di prima necessità, per evitare che cadano vittima degli scafisti di terra. Col tempo sono diventate referenti di fiducia di molti di essi, i quali segnalano loro violazioni di ogni tipo, perchè le denuncino poi alle autorità. “Accade sempre più spesso negli aeroporti che persone con diritto all’asilo vengano respinte o arrestate perchè non hanno documenti in regola”, spiega Agata. “Questo è illegale e rappresenta una progressiva erosione delle leggi sul diritto d’asilo. Si sente sempre parlare di lotta all’immigrazione clandestina, si trasformano i richiedenti asilo in criminali e non si parla mai di accessi legali e dei diritti di queste persone”.
I maggiori rischi, ad ogni modo, si corrono in mare. Dove in assenza d’operazioni di salvataggio, il soccorso dei migranti resta per lo più appannaggio dei privati. Dei mercantili o di altri natanti (militari o commerciali) che vorranno tenere fede alla cosiddetta legge del mare, secondo la quale va soccorso chiunque sia in difficoltà, anche se nessuno li rimborserà del tempo e dei costi che questo comporta. E dei cittadini che si sentono in dovere di esporsi in prima persona per aiutare esseri umani in difficoltà. Come i due imprenditori Regina e Christopher Catambrone, calabrese lei, americano lui, che dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa hanno dato vita alla prima missione di salvataggio nel Mediterraneo finanziata da privati. Si chiama Moas (Migrant Offshore Aid Station) ed è una Ong con sede a Malta, dotata di mezzi tecnici e di una squadra di soccorritori, che localizza e assiste i migranti in difficoltà. In realtà dopo le operazioni del 2014 – quando Moas è stata coinvolta nel salvataggio di 3mila persone, la metà delle quali con le proprie barche – la Ong ha attivato una campagna di crowdfunding per riuscire ad essere operativa anche nel 2015. “Al momento abbiamo raccolto 70mila euro”, spiega Martin Xuereb, l’ex Capo di Stato Maggiore di Malta che coordina il progetto, “ma dobbiamo arrivare almeno a 200mila per raggiungere gli standard dell’anno scorso. Considerando che stavolta in mare non ci saranno i mezzi di Mare Nostrum a fare il grosso del lavoro”.