Decantato da Jean-Jacques Rousseau e venerato da Stendhal: il Real Teatro di San Carlo di Napoli è il più antico teatro d’Europa ancora in attività.

Il colpo d’occhio rischia di essere fatale, per chi non è abituato. Quando si varca la maestosa doppia porta d’ingresso, si sentono la Storia ed i secoli che respirano all’unisono con noi, e con il giusto silenzio l’atmosfera diventa ancora più solenne.
L’imponente stemma dei Borbone campeggia sopra il palcoscenico: tre gigli d’argento su campo azzurro e 21 simboli araldici dei nobili Casati di Napoli. « Lo Stato, siamo noi » sembra voler dire quel simbolo ingombrante, un simbolo con cui hanno dovuto confrontarsi tutti gli uomini che hanno fatto la storia d’Italia: dai francesi di Murat a Garibaldi e Cavour, e giù fino ai Savoia e ai governi dell’Italia fascista e poi repubblicana. In un certo senso, l’eredità dei Borbone di Napoli è tutta racchiusa in quella sala.

Lo stemma della real casa di Borbone

Lo stemma della real casa di Borbone

Era il 4 novembre 1737 quando quello stemma fu issato sull’arco, il giorno dell’inaugurazione alla presenza di re Carlo di Borbone (ramo spagnolo del Casato francese) di cui si festeggiava l’onomastico. Impossibile quindi non dedicare proprio a lui il nome del nuovo teatro, che avrebbe sostituito l’antico Teatro di San Bartolomeo, vecchio e decadente, dal cui legname sorse poi il nuovo San Carlo.
Carlo era sovrano delle Due Sicilie soltanto da 2 anni, dopo aver sottratto il regno del sud agli austriaci (i quali l’avevano a loro volta sottratta dai viceré spagnoli, in quella che gli storici chiamano « la danza dei troni »); ma se il regno era stato, fino a quel momento, niente più che una colonia da sfruttare senza ritegno, Carlo decide invece di dargli lustro e di rendere Napoli la prima capitale d’Europa, farla competere in prestigio con le rivali Parigi e Londra. Per fortuna, il denaro non era un problema per il real monarca (a ben vedere, considerato tutto quello che era stato spremuto ai napoletani durante i vice regni austriaci e spagnoli) e fu pattuita la somma di 75mila ducati da versare all’architetto Giovanni Antonio Medrano (circa 1,5 milioni di euro).
Il contratto fu siglato a marzo del 1737 ed il 4 novembre il teatro venne inaugurato, tra lo stupore e l’ammirazione dei napoletani che accorsero in massa all’opera di apertura (Achille in Sciro del Metastasio).

La facciata del San Carlo

La facciata del San Carlo

41 anni prima della Scala e 51 prima della Fenice, il Teatro si impone con la sua bellezza all’ammirazione di delegazioni straniere che accorrono per copiarne l’architettura, le decorazioni, le sete e gli addobbi azzurri, colore della Casa Borbone. Da Stendhal a Rousseau, fino a Bach e Mozart, tutte le personalità dell’epoca facevano tappa a Napoli per rendere omaggio al regio teatro. L’aspetto odierno del teatro, con la facciata neoclassica e gli arredi interni, fu tuttavia voluto dal francese Joachim Murat (salito al trono di Napoli nel 1808 col nome italianizzato di Gioacchino Murat), che durante il suo breve regno affidò la direzione del teatro a Domenico Barbaja.
Gli affreschi, le tele e l’orologio che addobbano la sala furono realizzati dopo l’incendio che nel 1816 distrusse interamente il teatro. Nel frattempo, Murat aveva lasciato il posto a Ferdinando I di Borbone che immediatamente diede il via alla ricostruzione. La tela di 500 mq che oggi si può ammirare sul soffitto è opera di Antonio, Giovanni e Giuseppe Cammarano e raffigura Apollo che presenta a Minerva i più grandi poeti del mondo mentre la sala interna fu ampliata per ospitare 2.500 posti a sedere.
Fu proprio lo scrittore Stendhal a tessere l’elogio più commovente del San Carlo, durante la sua visita a Napoli nel 1817.

Il palco reale

Il palco reale

«Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è un colpo di Stato. Essa garantisce al re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare. Chi volesse farsi lapidare, non avrebbe che da trovarvi un difetto»

Il teatro passò sotto la direzione di Gioacchino Rossini, dal 1815 al 1822, e poi a Giacomo Donizetti fino al ’38, uno dei periodi più felici del San Carlo durante il quale furono presentate ben 19 opere in prima esecuzione, ennesima dimostrazione dell’importanza di Napoli come capitale della musica colta.

Sotto il regno di Ferdinando II (dal 1830 al 1859), l’attività del Teatro viene però compromessa dalla strettissima censura di corte che incrina la collaborazione con Giuseppe Verdi, costretto a rivedere e modificare molte delle sue opere (tra le quali  Il trovatore ed Un ballo in maschera) per far fronte alle incessanti pressioni del bigotto sovrano.
Fu un colpo duro alla qualità delle opere rappresentate, qualità che diminuì drasticamente dopo l’Unità d’Italia (1861), quando il San Carlo viene messo in secondo piano a discapito della Scala di Milano.

Con l’avvento dei Savoia al trono d’Italia, i tessuti blu del teatro furono sostituiti dal colore rosso, la tinta della Casa piemontese, e lo stemma dei Borbone fu letteralmente nascosto da quello Sabaudo, quasi a voler occultare ogni ricordo di quella dinastia che, seppur per un breve momento, aveva portato Napoli a competere con le più importanti metropoli europee.
Solo nel 1980 lo stemma dei Borbone venne riabilitato e tornò a imporre la sua presenza, indelebile ricordo di quando i sovrani di mezza Europa rendevano omaggio alla capitale del Sud.

Giovanni Canzanella
Plus de publications

Rédacteur et webmaster de RADICI