«L’Italia è un paese carico di storia, ma senza memoria». Con queste parole lo scrittore Carlo Lucarelli ha presentato al pubblico di Toulouse il suo romanzo Albergo Italia e gli anni dedicati alla ricostruzione storica e narrativa del periodo coloniale italiano. Durante la IX edizione del festival Toulouse Polars du Sud, Carlo Lucarelli ci ha gentilmente concesso un’intervista, che riportiamo qui di seguito.
Intervista di Francesca Vinciguerra
Buongiorno Carlo Lucarelli. Benvenuto a Toulouse e grazie per aver concesso quest’intervista alla rivista franco-italiana RADICI. Lei è al festival Polars du Sud per parlare di uno dei suoi libri, Albergo Italia, il secondo volume di una trilogia, pubblicato in Italia tre anni fa e tradotto in francese nel 2016. Di cosa parla questo libro?
È un romanzo giallo. Parla di un delitto avvenuto a Massaua nel 1896, nel primo periodo coloniale italiano. L’ho scritto perché volevo raccontare una storia poliziesca che mi piaceva, ma soprattutto perché volevo raccontare questo periodo storico del colonialismo italiano, il primo, quello della fine dell’Ottocento che da noi è poco conosciuto e poco raccontato.
Ci sono anche altri autori italiani che scrivono noir e che hanno scelto di parlare del colonialismo italiano, ma si sono soffermati più che altro sul periodo fascista, invece lei ha fatto un ulteriore passo indietro nel tempo.
Si, di solito si associa il colonialismo italiano al periodo fascista e in qualche modo è uno stratagemma per distanziarlo, per dire: « sono stati i fascisti e quindi l’Italia di oggi non c’entra niente con quella cosa lì ». Invece si scopre che c’è stato un colonialismo precedente, che implica altre responsabilità. Io volevo raccontare quello, che è poi quello più interessante. Una sorta di far-west tutto italiano, in cui tutto è ancora da raccontare.
In questi ultimi anni, possiamo dire che il colonialismo è uscito ufficialmente dal dominio esclusivo della saggistica storica e ha toccato altri generi. Com’è possibile? Davvero gli italiani stanno riscoprendo questa parte del loro passato?
Beh, piano piano e con difficoltà, perché non è che succeda così spesso. Però c’è stato un certo momento in cui la storiografia ha cominciato ad occuparsene, penso ad Angelo Del Boca (Gli Italiani in Africa orientale) e a tanti altri. Quando ho cominciato a scriverne, avevo a disposizione tantissimo materiale storico su quel periodo. Ma eravamo in pochi a raccontarlo dal punto di vista narrativo, anche se qualcuno lo stava già facendo. Lo abbiamo fatto perché l’Italia si ritrovava, una decina di anni fa, di nuovo ad avere a che fare con quelle tematiche : guerre, in Africa e nel Golfo, con soldati italiani presenti, l’immigrazione, il confronto con l’altro che viene da un altro posto, che ci sembra sconosciuto e che invece in teoria conoscevamo da un sacco di tempo.
Loro ci conoscono ancora, però.
Sicuramente gli Eritrei – magari quelli di adesso un po’ di meno perché è passato tanto tempo – ma gli Eritrei della prima immigrazione si, pensavano sicuramente di arrivare in un posto con il quale avevano un legame particolare. Come potrebbe essere per un tunisino, un algerino in Francia. È l’arrivo in un posto con il quale si ha un legame culturale, linguistico, che è innegabile. E invece no, si sono ritrovati in un posto che non sapeva neanche chi fossero.
Leggendo Albergo Italia non ho potuto fare a meno di pensare a Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, ma ho anche pensato a Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Quanto Flaiano c’è nel suo romanzo? Quanto Buzzati? Quali letture l’hanno ispirata?
Tante letture. Quando io ho cominciato a scrivere questi romanzi non avevo tanti riferimenti, non eravamo in tanti ad esserci occupati di quel periodo. Quindi ho dovuto cercarli fuori da quello che era il contesto “normale”. Il Deserto dei Tartari sicuramente è stato un riferimento, perché il periodo coloniale italiano, soprattutto nella prima parte, da un certo punto in poi è quello: un’attesa sonnolenta e lentissima di qualcosa che non avviene mai. Poi il maestro è sempre stato Flaiano, ovviamente. Anche lì, nel bene e nel male. È un bellissimo romanzo Tempo di uccidere di Flaiano, con i problemi e i limiti che può avere un romanzo scritto negli anni ’50.
In Albergo Italia c’è una frase che mi ha colpita, una frase che lei fa pronunciare al personaggio di Stevano. Ho letto il suo libro nell’edizione francese, quindi spero che la riconosca: « Si vous voulez mon avis, nous n’aurions jamais du y venir, et après Adua nous aurions mieux fait de l’abandonner et de rentrer chez nous. Nous l’avons déjà en Italie, notre Afrique. Et puis, putain, ici, on n’arrive pas à respirer ». L’abbiamo già in Italia la nostra Africa. Cosa vuole dire il personaggio di Stevano con queste parole ?
Quando c’è stata l’avventura coloniale italiana, che è stata fatta per tanti motivi, come il prestigio internazionale, distrarre l’opinione pubblica, probabilmente ci trovavamo in un periodo in cui le altre nazioni smettevano di andare a colonizzare i paesi. Ecco, l’Italia in quel periodo avrebbe fatto meglio a risolvere i problemi che aveva in casa. La nostra Africa era il sottosviluppo che c’era nel Meridione. E allora, invece di pensare di prendere i nostri contadini e mandarli tutti in Africa, in un posto in cui sarebbe stato impossibile fare qualsiasi cosa senza spendere tantissimo, e che comunque era già di altre persone, tanto valeva occuparsi dell’Italia in maniera sensata.
Questa situazione tutta italiana di fine ‘800 in Africa è presente anche nel suo libro precedente, L’Ottava vibrazione, il primo volume di questa trilogia “coloniale”. Nel miscuglio di lingue che si viene a creare in Eritrea e nelle menti dei personaggi, tra tigrigno, italiano, arabo, in realtà ci sono anche tanti idiomi italiani, così tanti che spesso neanche si capiscono tra di loro.
Ne L’Ottava Vibrazione quello che mi interessava dal punto di vista linguistico era ricreare una specie di sinfonia, a mio parere bellissima. Una sinfonia data dal fatto che in quell’epoca ci si ritrovava facilmente in compagnia di persone che parlano un’altra lingua, gli abissini, una lingua che ha tantissime sfumature: chi parla l’amarigna, chi il trigrigna, chi viene dallo Yemen, e quindi parla una lingua non sua con altre sfumature, ma soprattutto mi piaceva l’idea che l’Italia fosse così. Allora era un’Italia in cui un piemontese, un siciliano e un bolognese parlavano lingue diverse. E gli italiani di allora parlavano parecchio il dialetto, quindi italiani di estrazione popolare, che erano quelli mandati a fare i militari lì, parlavano italiano con accenti diversi. A volte fanno fatica a capirsi. E questa è una sinfonia che io ho cercato di riprodurre perché mi piaceva tantissimo l’idea che si percepisse un po’, che si indovinasse.
Nei personaggi del comandante Colaprico e di Ogbà, il carabiniere italiano e la sua spalla indigena protagonisti di Albergo Italia, c’è chiaramente un riferimento a Sherlock Holmes e al suo assistente Watson. Ma tra Colaprico e Ogbà c’è un divario storico, politico e sociale: quello della colonizzazione. Nonostante l’amicizia e l’ammirazione reciproca che li lega, il primo rimane il colonizzatore e il secondo il colonizzato. Questa dimensione dona al personaggio di Ogbà uno spessore anche maggiore: mi vuole parlare di lui?
Quando ho cominciato, avevo in mente il personaggio di Colaprico che era il mio Sherlock Holmes. Per esperienza poi, nel giallo classico ci vuole una spalla con la quale Sherlock Holmes interloquisca e si confronti. All’inizio pensavo di mettere al suo fianco un maresciallo dei carabinieri, abbastanza stereotipato. Poi invece, chiacchierando di quello che volevo scrivere con mia moglie che è eritrea, lei mi ha detto : “Ma sai che mio nonno era uno zaptié, un carabiniere eritreo?” E allora io ho pensato che fosse più bello mettere come spalla al mio Sherlock Holmes uno zaptié, più originale e anche più realistico. Poi il personaggio è cresciuto. Il mio Ogbà parla lingue che il capitano Colaprico non ha bisogno di conoscere: è un italiano e parlerà italiano. Ogbà invece è quello che deve parlare con la gente e che conosce il luogo. È quello che sa come pensa la gente e quindi è anche quello che arriva a capire le cose prima di Colaprico. Piano piano, Sherlock Holmes diventa lui. Con la difficoltà però, di essere innanzitutto un subalterno e per di più colonizzato, quindi lui non potrà mai dire a Colaprico : “Capitano, con tutto il rispetto, lei si sta sbagliando”. Deve dirglielo in un modo tale che Colaprico lo capisca da solo. Questo ha fatto crescere il personaggio in una maniera secondo me bellissima. Alla fine il secondo personaggio più importante dopo Colaprico è diventato Ogbà. Il vero Sherlock Holmes è lui.
Nel libro ci sono moltissime riflessioni che lei mette in bocca ai suoi personaggi e che riguardano l’attualità italiana dell’epoca, la scelta di colonizzare. Ma spesso queste riflessioni riguardano anche l’Italia dei nostri giorni, come se non fosse cambiato nulla.
Perché è così. L’Italia, come altri paesi ma forse un po’ di più, non ha mai fatto davvero i conti con il suo passato. In genere tendiamo a dimenticarlo. E questo fa in modo che i meccanismi – sbagliati – del nostro modo di essere italiani, si riproducano. In Albergo Italia, parte dell’affare ruota attorno ad uno scandalo finanziario che coinvolge i partiti politici e coperto da servizi segreti e mafia. Ora, se io non dico che si tratta dello scandalo della Banca Romana del 1893, posso dire che è lo scandalo dell’altro ieri o che sarà quello di dopodomani. Sono meccanismi che ci sono sempre stati, e finché uno non li tronca si ripetono. Quindi io posso raccontare storie del passato, ma credo ci siano abbastanza familiari anche oggi.
Devo dire che i suoi due libri, almeno i primi due della trilogia che per ora sono stati tradotti in francese mi sono piaciuti molto, soprattutto L’Ottava Vibrazione, in cui sembra che ci sia una dimensione corale, globale, di lingue e di storie che poi si dipanano in qualche modo in Albergo Italia.
Mi sono molto appassionato alla scrittura de L’Ottava Vibrazione. Per me è stata la scoperta di un mondo completamente nuovo, ci ho messo tanto tempo per capirlo, sette anni prima di arrivare a scrivere. E poi ci ho messo un sacco di roba. Forse troppa, nel senso che alla fine può risultare un po’ confusionario. Però mi piaceva.
Per adesso è una trilogia, ma continuerà?
Credo di si. Ho ancora un po’ di idee, voglio sapere dove stanno andando i miei personaggi. Alla fine di ogni romanzo le loro indagini finiscono, si scopre sempre chi è l’assassino, e va bene così. Però loro sono in continua trasformazione. Vorrei sapere Colaprico cosa farà, come pensa a se stesso un tipo che continua a cercare di fare il suo dovere ma non ci riesce. Dall’altra parte cosa pensa invece di se stesso Ogbà, che si è scavato un suo ruolo e anche una certa amicizia con il suo capitano, ma che rimane comunque un colonizzato e sta sempre lavorando sotto un padrone. Come si considera? Che risposte trova sulla propria identità? Lo scopriremo nel prossimo romanzo…
Carlo Lucarelli Sito Ufficiale
Née en 1991 à Lanciano, Francesca Vinciguerra a récemment obtenu son diplôme en littératures française et européenne dans les universités de Turin et de Chambéry, avec un mémoire en littérature post-coloniale française. Depuis septembre 2016, elle vit à Toulouse, ville où elle a entrepris une collaboration avec la revue RADICI et a terminé un service civique avec l’association de musique baroque Ensemble baroque de Toulouse.