Da aspirante prete a braccio destro di Napoleone, fino a diventare re di Napoli con l’ambizione di unire l’Italia intera sotto il suo vessillo. Questa è la storia di Joachim Murat, condottiero, sovrano e ribelle.
Alto, occhi blu oceano, elegante e coraggioso fino all’incoscienza. Ma soprattutto ambizioso. Persino l’algida sorella di Napoleone Bonaparte, Carolina, aveva un debole per lui; come resistere a quel principe azzurro, un po’ sbruffone, ma che in sella al suo cavallo bianco fa irruzione nel cuore della notte al Direttorio di Parigi e che spazza via con un colpo di mano i 500 membri dell’assemblea al grido di «Foutez-moi tout ce monde dehors!» ?
Quell’uomo è Joachim Murat: ex-giacobino, soldato, condottiero, braccio destro di Napoleone, re di Napoli ed infine ribelle e voltagabbana. È un uomo a tutto tondo, re Gioacchino (così si farà chiamare durante il suo breve regno), con tutte le contraddizioni che gli uomini si portano dietro, quando sono destinati a scrivere la Storia.
La gioventù
Probabilmente monsieur e madame Murat non pensavano che il loro undicesimo figlio, nato il 25 marzo 1767 a Bastide-Fortunière (oggi Bastide-Murat) sarebbe arrivato tanto lontano. Il padre, Pierre Murat-Jourdy, era un modesto albergatore e per il piccolo Joachim sognava una ben più modesta carriera ecclesiastica ma alcol, donne e gioco d’azzardo mal si sposano con la vita del sacerdozio. Non ebbe miglior fortuna neanche quando lasciò il seminario per arruolarsi in cavalleria, tra i Cacciatori delle Ardenne. « Regolamento » e « disciplina » erano due parole che stridevano con il carattere irruento del giovane Joachim, che venne destituito nel 1789. Quando scoppia la Rivoluzione francese, si arruola prima nella guardia costituzionale di re Luigi XVI e poi, quando i giacobini prendono il potere, entra nei ranghi dell’esercito rivoluzionario per mettersi poi al servizio dell’allora sconosciuto generale Bonaparte. L’abitudine di cambiare casacca pur di soddisfare le proprie ambizioni, rimarrà nel carattere di Murat fino alla fine dei suoi giorni.
Al fianco di Napoleone
Sarà proprio Murat a portare a Napoleone i cannoni necessari per soffocare nel sangue una rivolta realista scoppiata a Parigi, e quando il generale Bonaparte viene incaricato dal Direttorio di partire per l’Italia per sfidare l’impero austriaco, Murat si offre come aiutante di campo. Inizia così un sodalizio che legherà le vite dei due, tra alti e bassi, fino alla fine dei loro giorni.
La campagna d’Italia è un successo: gli eserciti austriaci nulla possono contro le cariche di cavalleria guidate dall’impavido Murat, che nel 1796 è già divenuto generale di brigata. I suoi uomini lo adorano, lo seguono senza timore sotto il fuoco delle artiglierie nemiche e accorrono intorno a lui quando lancia il suo grido di battaglia: «Suivez mon cul!». La sua cavalleria si rivela decisiva nella battaglia di Abukir (Egitto, 1799), contro gli Ottomani, facendogli guadagnare i gradi di generale di divisione.
Sul campo di battaglia lo si nota subito: una vistosa uniforme polonaise con risvolti dorati e un largo cappello con quattro piume di struzzo in cima. Coraggioso ed indomito sul campo, Joachim Murat è però digiuno di strategia e gli altri ufficiali francesi lo chiamano coq empanaché (gallo impennacchiato), gelosi di come un uomo senza conoscenze strategiche potesse accaparrarsi tanta gloria. Queste rivalità quasi sfociano in un duello alla sciabola quando Murat risponde in malo modo al maresciallo Ney:
«Signor maresciallo, non mi interessano i vostri piani. Io sono abituato a fare i miei di fronte al nemico!».
Ma cos’è la gloria sul campo di battaglia senza una donna con cui condividerla? Nel 1800, Joachim Murat convola a nozze con Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone, pur dovendosi confrontare con le resistenze del Primo Console, che per l’avvenente e capricciosa sorella avrebbe desiderato un marito di ben più alto rango. Ma neanche l’uomo più potente d’Europa riesce ad estinguere i fuochi della passione dei due amanti, così acconsente di malavoglia alle nozze.
La stella di Murat è in ascesa: si trasferisce a Milano dove diventa l’uomo di collegamento tra la Francia e i vertici della Repubblica Cisalpina, ma la diplomazia proprio non è il suo forte ed il suo potente cognato non manca di farglielo notare in numerose missive, sebbene alterni esternazioni di affetto a critiche incendiarie.
Re Gioacchino
Dopo l’esperienza di Milano, Napoleone assegna a Joachim e a Carolina l’ambitissimo trono di Napoli, rimasto vuoto dopo la partenza di Giuseppe Bonaparte. Il 25 settembre 1808, Joachim Murat fa italianizzare il suo nome in Gioacchino Bonaparte e fa il suo ingresso a Napoli in alta uniforme e cappellone, seguito da uno sfarzoso seguito.
Tra Murat ed i suoi nuovi sudditi è amore a prima vista e ci vuole poco a capire perché: i napoletani « adottano » da subito il giovane re dallo spirito focoso, con il suo fascino e l’arroganza che lo rendevano il modello ideale di sovrano in un regno dove il gusto per l’apparenza e il disprezzo delle regole (questa era infatti l’eredità lasciata dai Borbone di Spagna a Napoli) erano parte della quotidianità.
Murat nel suo nuovo ruolo ci crede davvero ed avvia una serie di importanti riforme, quali mai se ne sono viste nel Regno di Napoli, se non sotto l’amatissimo Carlo III di Borbone, quasi cent’anni prima. Murat introduce per la prima volta il divorzio, istituisce il Corpo degli ingegneri di Ponti e Strade (antesignano della facoltà d’ingegneria di Napoli, la prima in Italia), obbliga il clero a pagare le tasse sugli immobili e quando questo rifiuta il pagamento, ne incamera i possedimenti in favore dello Stato. Molti saranno anche gli interventi di pubblica utilità, come la riqualificazione del porto di Brindisi (che diventerà uno dei più importanti d’Italia), la costruzione di strade e ponti, l’illuminazione pubblica a Reggio Calabria, l’istituzione di un’Accademia Reale per i futuri funzionari dell’esercito.
Se la dominazione francese in Europa fu violenta e accompagnata da sfruttamenti e ruberie, Gioacchino inaugura a Napoli una politica di distensione e di sviluppo. Tutto ciò non è gradito al regale cognato; Napoleone non vuole un sovrano indipendente ma un re-fantoccio che si pieghi ai suoi ordini e che fornisca soldi e uomini per le campagne militari dell’impero. Il rapporto tra i due inizia ad incrinarsi; le missive diventano sempre più avvelenate e Murat si guadagna appellativi poco onorevoli come lazzarone. Ma re Gioacchino tira dritto, sordo ai richiami dell’uomo a cui, nonostante tutto, deve il suo trono e la sua carriera.
Nel 1811, una violenta crisi economica attraversa l’Europa a causa dell’embargo (voluto da Napoleone) dei prodotti provenienti dalla Gran Bretagna; i dominatori francesi distruggono tutte le merci di contrabbando che entrano in Italia: tè, zucchero, caffè…interi carichi vengono dati alle fiamme sotto gli occhi delle popolazioni affamate. Murat non ci sta. Il blocco continentale mette a rischio l’economia e per evitare ciò, il Regno di Napoli continua i commerci con i nemici inglesi nonostante i ripetuti richiami di Napoleone che convoca a Parigi il re ribelle, minacciandolo addirittura di morte se non si piegherà alle direttive imperiali.
La verità è che Murat si sentiva ormai libero da qualsiasi legame con la sua patria francese, e finì per amare quel popolo che ora pendeva dalle sue labbra e che vedeva in lui il suo padre e protettore.
Il tradimento e il proclama di Rimini
La guerra in Europa continua; Napoleone vuole Murat al suo fianco nella campagna di Russia e re Gioacchino partecipa personalmente con 50mila cavalieri ma la spedizione si rivela un disastro. Di quei 50mila uomini, poco più di 1000 ritorneranno a casa. Il maresciallo Davout rimprovera a Murat di mandare allo sbaraglio i suoi stessi uomini con cariche di cavalleria sconclusionate:
«Quando si portano gli occhiali, signor maresciallo» risponde Murat con la sua abituale arroganza «non si fanno più campagne militari».
Per l’ultima volta, Murat è al fianco di Napoleone a Lipsia nel 1813, dove i loro eserciti vengono messi in rotta; è la fine dell’impero e i due non si rivedranno mai più. Rientrato in Italia, re Gioacchino intavola trattative con gli austriaci per conservare il suo trono e creare un Regno di Napoli indipendente. Napoleone però non è ancora sconfitto, ed invia a Murat un uomo di fiducia per saggiarne le intenzioni. A Napoli, scrive il commissario Fouché, «la parola indipendenza ha acquistato una virtù magica». Ma il tempo dell’imperatore è ormai finito: Napoleone è costretto ad abdicare e viene mandato in esilio all’isola d’Elba: è il 4 maggio 1814.
L’11 gennaio dell’anno dopo , Murat sente nell’aria l’odore della disfatta e cerca di parare il colpo firmando un accordo con gli austriaci che gli garantiscono il possesso del trono di Napoli; quando ad Elba giunge la notizia, Napoleone è fuori di sé:
«Non può essere! Murat, al quale io ho dato mia sorella! Murat, al quale io ho dato un trono! È impossibile che si sia dichiarato contro di me!»
Il 26 febbraio, l’imperatore decaduto riesce però a fuggire dall’isola e riconquista velocemente la Francia, attirando l’attenzione di austriaci ed inglesi. È il diversivo che Murat aspettava per mobilitare il suo esercito e lanciarlo alla conquista della Penisola, tradendo così, dopo Napoleone, anche il trattato stipulato pochi mesi prima con gli austro-inglesi. L’esercito napoletano si dirige a tutta velocità verso gli stati pontifici, invadendoli e risalendo fino a Bologna ma il 3 maggio Murat viene sconfitto a Tolentino. Segue una precipitosa fuga a Rimini e da lì re Gioacchino lancia il celebre proclama: riunire tutti gli stati italiani sotto il proprio stendardo per unificare l’Italia e liberarla dall’invasore straniero (dimenticando che lui stesso è sia straniero che invasore…).
È il 12 maggio 1815, il regno di Murat è al crepuscolo e l’appello cade nel vuoto.
La tragica fine
Intendiamoci: Murat non voleva l’unità d’Italia più di quanto la volessero gli austriaci, e l’appello agli italiani per liberarsi dal giogo straniero è una mossa disperata per conservare un trono traballante. Murat lo sa, come lo sanno anche gli austriaci e anche Napoleone, che commenterà poi da Sant’Elena così:
«Murat ha tentato di riconquistare con duecento uomini quel territorio che non era riuscito a tenere quando ne aveva a disposizione ottantamila.»
Dopo la disfatta di Waterloo, ad agosto Murat si rifugia in Corsica. Nel frattempo, sua moglie Carolina si è consegnata agli inglesi e Ferdinando IV di Borbone è tornato sul trono di Napoli sulla punta delle baionette austriache. Ma re Gioacchino non ci sta a terminare la sua avventura dimenticato su di un’isola, lui che da apprendista prete era diventato generale del più formidabile esercito d’Europa e poi re di Napoli. Il 28 settembre, insieme ad altri 250 uomini, organizza una spedizione nel Sud Italia, per accendere la scintilla della rivolta contro il Borbone e riconquistare il trono.
Ma anche la Sorte sembra aver voltato le spalle a Gioacchino.
Le imbarcazioni che trasportano gli uomini incappano in una tempesta e i pochi superstiti vengono scaraventati a Pizzo, un villaggio sulle coste calabresi.
Possiamo solo immaginare cosa abbiano pensato gli abitanti di quel piccolo borgo alla vista di un manipolo di uomini in armi guidati da un gigante con gli occhi blu con quella bizzarra, vistosa uniforme; nessuno tra il popolo riconosce il re decaduto, la rivolta fallisce ancora prima di iniziare. Gioacchino Murat viene arrestato dai gendarmi e rinchiuso nel carcere del castello di Pizzo.
Ironia della sorte, Murat viene condannato a morte secondo una legge che lui stesso aveva firmato quando era re, che prevede la fucilazione per i colpevoli di « atti rivoluzionari ». Leggendo la condanna tra le mura della sua cella, Murat sarà sicuramente esploso in una delle sue fragorose risate. Accetta la condanna stoicamente, e davanti al plotone d’esecuzione mostra quel coraggio che lo ha reso il terrore degli eserciti austriaci, quando cavalcava al fianco dell’imperatore e l’Italia si inchinava davanti a loro.
Rifiuta di farsi bendare gli occhi e vuole comandare lui stesso il plotone d’esecuzione.
«Risparmiate il mio volto, mirate al cuore. Fuoco!»
Così termina l’avventura di Joachim Murat, il re francese che voleva unire l’Italia, e si dice che per molti anni ancora i napoletani, ripensando a re Gioacchino, tirassero fuori dalla tasca una moneta con la sua effige e la guardassero sospirando.
A ricordare la burrascosa avventura italiana di Murat, rimangono la sua statua sulla facciata del Palazzo Reale di Napoli (che lo ritrae in alta uniforme e col cappellone con le piume di struzzo) ed una targa commemorativa a Castellabate che aveva ospitato il sovrano nel 1811 il quale, innamoratosi del clima mite di quei luoghi, si dice abbia guardato lo splendido panorama sospirando:
«Qui non si muore».
Rédacteur et webmaster de RADICI
La targa commemorativa « QUI NON SI MUORE » si trova a CASTELLABATE (Salerno)
Grazie per la precisazione! Testo corretto