Il piemontese, il dentista e la partita del secolo
Angelo Schiavio era esausto. Lui, centravanti di sfondamento, esiliato sulla fascia ai margini del gioco dopo che un difensore senza pietà l’aveva steso e infortunato. Le sostituzioni non erano ancora state inventate e Angelo doveva stringere i denti per non lasciare i compagni in dieci contro i terribili cecoslovacchi. E così l’allenatore lo mise all’ala, defilato e buono solo per fare numero. Schiavio, però, era un grande giocatore. Il simbolo del “Bologna che tremare il mondo fa”. E così quando l’indio argentino Guaita si ricordò di lui e gli passò la palla, non si fece pregare: un passo, un secondo e poi una bordata imparabile, a far secco la leggenda coi guanti Frantisek Plànicka. Due a uno. Era il quinto minuto dei tempi supplementari di Italia-Cecoslovacchia del 10 giugno 1934, a Roma, e Angelo Schiavio aveva segnato un gol storico, quello che diede alla Nazionale italiana il primo titolo mondiale.
Campioni del mondo
La Coppa del Mondo di calcio era in verità nata nel 1930 e prendeva il nome di “Coppa Jules Rimet” dal presidente della Fifa (Fédération Internationale de Football Association) che la istituì. A quella prima edizione dei Mondiali, ospitata e vinta dall’Uruguay, l’Italia non partecipò, anche se i nostri atleti si erano fatti valere già alle Olimpiadi del 1924 e del 1928. A guidarli c’era il piemontese Vittorio Pozzo, ex giornalista che allenò gratis per “non prendere ordini da nessuno”. Di umili origini, privo della tessera fascista, aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale tra gli alpini e quella disciplina appresa sotto le armi la trasferì ai Mondiali, in Nazionale. Si basò sul blocco della Juventus, allora dominatrice della Serie A, selezionando trenta giocatori da temprare nell’eremo di Alpino, sul Lago Maggiore. Tra questi, campioni come Giuseppe Meazza, il portiere Gianpiero Combi e gli oriundi Orsi, Monti e Guaita, sudamericani che avevano ottenuto la cittadinanza italiana. Così, quando i mondiali infine cominciarono, il 27 maggio 1934, tutto lo Stivale era pronto a seguire le imprese della Nazionale, con il beneplacito del duce Mussolini che assisteva a tutte le partite e voleva gli azzurri “creativi e capaci di farsi valere come aveva fatto lui”.
Alla fase finale, proprio in Italia, parteciparono 16 squadre e ci toccò sfidare la Grecia, gli Stati Uniti, la Spagna, l’Austria e, infine, la Cecoslovacchia. I nostri undici ebbero la meglio nettamente per 4-0 e 7-1 sulle prime due ma contro la Spagna del portiere Zamora, uno dei più forti della storia del calcio, ci vollero due partite: 1-1 alla fine dei tempi supplementari e poi 1-0 nella ripetizione del match, quando ancora non si “andava ai rigori” e lo stesso Zamora era assente per infortunio. Uno a zero fu lo stesso punteggio rifilato agli austriaci. In finale, non ci lasciammo scoraggiare dal gol ceco di Puc al 71’ e a sette minuti dalla fine agguantammo il pari con Raimundo Orsi per ottenere poi la vittoria ai supplementari grazie al coraggio di Schiavio. Fu anche un bel successo economico per il Paese, visto che la Federazione italiana giuoco calcio (Figc) chiuse l’organizzazione con un utile di quasi un milione di lire e la semifinale contro l’Austria fece registrare il record d’incasso di 811.526 lire. Tra i più soddisfatti ovviamente Benito Mussolini, che sfruttò la vittoria ai mondiali per valorizzare l’immagine dell’Italia all’estero e per rafforzare lo spirito nazionalista all’interno di un Paese povero e preoccupato.
Biagio Picardi
Nato a Lagonegro, un paesino della Basilicata, e laureato in Scienze della Comunicazione, vive a Milano. Oltre che per Radici attualmente scrive per Focus Storia e per TeleSette e realizza gli speciali biografici Gli Album di Grand Hotel. In precedenza è stato, tra gli altri, caporedattore delle riviste Vero, Stop ed Eurocalcio e ha scritto anche per Playboy e Maxim. Nella sua carriera ha intervistato in esclusiva personaggi come Giulio Andreotti, Alda Merini, Marcello Lippi, Giorgio Bocca e Steve McCurry.