Le parolacce erano nel vocabolario di Egizi, Greci e Romani e dei medioevali. Il turpiloquio è vecchio quanto l’uomo, anche se nei secoli è cambiato.
Ve ne proponiamo una carrellata, non certo per il piacere di proferirli contro qualcuno, ma perché la storia di una lingua è fatta anche di questo e conoscerli evita magari di farne un uso non appropriato.
Meretrice, cispa degli occhi, frittata d’aglio, rubbatore di strade, sozzo guelfo traditore, votacessi e mangiamaccaruna. Tra parolacce, bestemmie e insulti, gli antichi ne avevano di modi per offendersi a vicenda. Questione di fantasia, di lingua lunga e sboccataggine, ma anche di tabù, pregiudizi e classi sociali. E di una innegabile verità: il turpiloquio è vecchio quanto l’uomo. «Nonostante l’opinione di Dante Alighieri, secondo il quale la prima parola pronunciata dall’uomo sarebbe stato il nome di Dio, è probabile che alcuni dei primi suoni emessi dai nostri antenati avessero la forma e la funzione delle nostre attuali “parolacce” e siano nati come reazione istintiva e immediata a una situazione di sorpresa, pericolo o dolore», afferma Romolo Giovanni Capuano, sociologo e autore di vari saggi sull’argomento.
Quando il linguaggio si fece più articolato, si svilupparono anche insulti e oscenità. «Si tratta in genere di parole associate a comportamenti e sfere particolari, come il sesso e gli escrementi o una minaccia, ingiuria o insulto capaci di disgregare l’ordine sociale esistente. La necessità di tenere a bada queste espressioni legittimava l’istituzione di tabù ancora oggi molto sentiti», spiega il sociologo. Ma i divieti, si sa, oltre all’obbedienza alla regola, generano anche la reazione opposta: il fascino del proibito, che spinge l’uomo a infrangere i limiti imposti. Cosa che fecero gli Egizi nel III-II millennio a.C., offendendo gli dèi senza particolare ritegno. Almeno stando all’interpretazione di alcuni geroglifici e papiri, in cui Nefti, la dea dell’oltretomba, era definita una “femmina senza vulva”, il dio Thot un essere “privo di madre”, Ra il dio sole “con la cappella vuota”.
I Greci, che preferivano non scherzare con i fulmini di Zeus, imprecavano invece in nome del cavolo (mé tén krambén) ma anche “per l’aglio”, “per il cane” e “per la capra”.Un vocabolario di latino aperto alle pagine giuste svelerebbe invece agli adolescenti che il loro turpiloquio è roba da antichi: termini come stercus (merda), mentula (membro maschile), futuere (fottere), meretrix (prostituta) e scortum (sgualdrina) li usavano già i Romani, come mostrano ad esempio i graffiti scurrili sui muri di Pompei. I medioevali, più pratici, attingevano invece a piene mani dal mondo animale: bestia, cagna, bacalare (baccalà), iumenta (vacca), porco e scorfano.
Ma perché consideriamo parolacce stercus e iumenta e non, per esempio, “escremento” e “mucca”? «Non esistono parole oscene in assoluto: le parole sono di per sé neutre, siamo noi ad attribuire loro connotazioni emotive. Per questo il senso offensivo di alcune cambia a seconda delle epoche e della società in cui si esprimono», prosegue Capuano. Un esempio? “Marrano”, termine che indicava gli ebrei convertiti e che nella Spagna medioevale era un insulto gravissimo, punibile con la morte; oggi non lo usano nemmeno più i bambini, al massimo si trova in qualche vecchio film di cappa e spada. Lo stesso vale per “rubbatore di strade”, il nostro “ladro”, a quei tempi una delle ingiurie più frequenti e infamanti, dal momento che il furto era considerato un crimine condannato dai comandamenti di Dio e sanzionato quasi come l’omicidio. Ma avreste avuto il diritto di sentirvi molto offesi anche se qualcuno vi avesse detto “tu menti per la gola”, cioè “bugiardo matricolato”: la fedeltà alla parola data, infatti, nel Medioevo era un pilastro della buona fama di una persona.
I medioevali, razzisti e classisti, consideravano offensivo il termine “villano”, che indicava l’abitante della campagna, proprio com’era offensivo per i Romani dare del “sannita” a qualcuno. I fondatori dell’Urbe, infatti, consideravano questi italici, che si erano opposti strenuamente alle loro legioni, montani, agrestes e latrones, cioè “montanari”, “rozzi” e “briganti”. Non solo la provenienza, anche le professioni e il cibo più umile originavano termini sprezzanti per ogni occasione: i siciliani del Trecento erano mangiamaccarune, i napoletani mangiafoglia (di cavolo). E nello stesso periodo si poteva qualificare un avversario dandogli del votacessi o dello “scardatore di castagne di villa”.