Condannato a morte dai nazisti e inviso ai comunisti, è stato la bandiera del Corriere della Sera per 36 anni, ha fondato i quotidiani Il Giornale e La voce ed ha vissuto in prima persona il secondo conflitto mondiale, la rivolta d’Ungheria, la caduta del Muro di Berlino, Tangentopoli, l’ascesa al potere di Silvio Berlusconi. Ha conosciuto personalmente tutti i protagonisti del XX secolo (« tranne Mao e Stalin » precisava): Indro Montanelli era più di un giornalista; è stato il narratore di un’epoca travagliata, tratteggiata con una prosa tagliente e semplice, che potesse arrivare a chiunque. Indro per l’istruzione aveva il pallino: se la cultura non arriva agli strati più umili, era solito dire, è una cultura fallita. Nessuno più di lui ha rappresentato il baluardo della libera informazione, slegato da ogni logica di partito. Questa è la sua storia, la storia di una voce fuori dal coro.
Il Ventennio
Indro nacque a Fucecchio nel 1909, figlio di un preside di liceo. Si dimostrò presto un « ribelle »: mentre Mussolini marciava su Roma con le sue camicie nere, Montanelli (con un gruppo di liceali) marciava invece sulla prefettura locale, tenendo « prigionieri » tra le altre persone anche il suo stesso padre. La sua carriera scolastica fu però proficua, ottenendo una laurea in giurisprudenza e una in scienze politiche. Intanto l’ascesa di Mussolini diventava irresistibile e lo stesso Montanelli ammetteva: « Mussolini mi piaceva. Mi metteva in divisa e mi faceva sfilare. Rappresenta i miei vent’anni, i miei stupidi e bellissimi vent’anni e io non posso rinnegarli « .
L’esordio nel giornalismo avviene nel ’32, all‘Universale. Fu così che ebbe l’occasione di conoscere personalmente il capo del fascismo. Il Duce lo convocò a Palazzo Venezia per congratularsi per un suo articolo contro il regime nazista e la xenofobia. « Il razzismo è roba da biondi » gli disse Mussolini, riferendosi ai tedeschi. Peccato che proprio Montanelli all’epoca vantasse una chioma di capelli biondi.
» Condannato al giornalismo «
Ma Indro ha voglia di nuove esperienze: si reca a Parigi, poi a New York dove viene assunto alla United Press, la più nota agenzia di stampa americana. La strada ormai è tracciata: « Mi considero un condannato al giornalismo, perché non avrei saputo fare niente altro « , dirà anni dopo.
Intanto l’Italia si prepara alla guerra d’Abissinia (1934) e Indro vuole seguire la spedizione ma la United Press gli nega il permesso: in quanto italiano, non farebbe un resoconto obiettivo. Il giovane cronista, coscienziosamente, si licenzia senza protestare e parte per l’Eritrea come volontario nell’esercito, col grado di sottotenente. Comanda di un gruppo di ascari (indigeni arruolati nell’esercito regio) e si guadagna la loro fiducia insieme all’appellativo di deitana, ovvero » capo onnipotente « . E’ talmente amato dai suoi uomini, che gli indigeni si danno da fare addirittura per trovargli moglie: una ragazzina di 12 anni di nome Fatima, che viene acquistata da suo padre in cambio di 500 lire, secondo le usanze locali. Non scandalizzi questa notizia: il madamato (ovvero una relazione temporanea tra un cittadino italiano ed una donna nativa delle terre colonizzate) era usanza comune in quell’epoca ed in quel luogo. Fatima accompagnerà Indro durante il suo soggiorno africano.
Ma al suo rientro, tornato borghese, fatica a trovare un nuovo impiego; dovrà attendere la guerra di Spagna nel ’36 per recarvisi come inviato de Il Messaggero. Durante l’assedio di Santander le truppe italiane affiancano le unità ribelli del dittatore Franco ma la città si arrende per fame, senza colpo ferire.
Disse Montanelli: « Mandai una corrispondenza che iniziava così: ‘è stata una lunga passeggiata militare con un solo nemico: il caldo’ « .
L’articolo non piace alle autorità e Montanelli viene radiato dall’Albo dei giornalisti e gli viene revocata la tessera del Partito Fascista. Indro non si preoccuperà più di riaverla indietro. Si profila l’ombra di un processo che potrebbe addirittura portarlo al confino ma Montanelli si difende chiedendo che venisse fatto il nome almeno di un morto durante gli scontri di Santander. Il processo non si fece più.
La fronda al fascismo
L’episodio è determinante: per la prima volta Montanelli inizia a dubitare della propria adesione al fascismo. La condanna per quell’articolo lo obbliga ad abbandonare il giornalismo attivo. Sarà l’editore Leo Longanesi a chiamarlo per collaborare clandestinamente alla rivista Omnibus. Da Longanesi, Montanelli attinge a piene mani affinando la sua prosa ed il suo gusto per la fronda, ma la situazione diventa difficile. Decide di cambiare aria e trova impiego a Tallin (Lettonia) come direttore dell’Istituto Italiano di Cultura. Sarà la guerra d’Albania a riportare Montanelli in Italia grazie a Giuseppe Bottai (ministro dell’educazione fascista e suo amico dai tempi dell’Eritrea) che lo segnala come « il giornalista con lo stile più adatto a propagandare la conquista « . Viene assunto al Corriere della Sera nel 1938: è l’inizio di una collaborazione che durerà 36 anni.
L’anno dopo, Montanelli mette a segno un gran colpo: sarà il primo a dare notizia dell’attacco tedesco alla Polonia, la mattina del 1° settembre. Si recherà poi in Finlandia per raccontare l’aggressione russa. « Mi trovai nel bel mezzo della guerra più bella che mi sia mai capitato di raccontare » dirà in seguito. Montanelli parla con ammirazione delle sparute pattuglie finlandesi che si oppongono disperatamente all’invasione russa e si trova ad Helsinki nel momento in cui la città viene bombardata dall’aviazione sovietica.
I suoi articoli dal fronte entusiasmano anche la stampa estera e vengono ripresi più volte. Non piacciono invece ai nazi-fascisti (in quel momento alleati dell’Unione Sovietica). Indro però continua a seguire il conflitto su tutti i fronti: Francia, Grecia, Jugoslavia. L’Italia è ormai in guerra ma lo spirito nazionalistico impedisce a Montanelli di commentare troppo duramente le fallimentari operazioni dell’esercito italiano.
La condanna a morte
L’8 settembre viene firmato l’armistizio con gli anglo-americani. I tedeschi occupano il nord Italia e fanno irruzione alla sede del Corriere, in via Solferino a Milano, per arrestare Montanelli. Lui è già in salvo ma la fuga dura solo pochi mesi; verrà catturato durante l’incontro con il capo partigiano Filippo Beltrani, che resta ucciso nello scontro.
Condannato a morte dopo un processo sommario, Montanelli rifiuta di firmare la domanda di grazia e viene trasferito a san Vittore dove stringe amicizia con un giovane inserviente di origini americane: Mike Bongiorno. Qui Indro incontra anche Giovanni Bertoni, un piccolo truffatore che si finge generale per fare la spia ai tedeschi. Da questo episodio, Montanelli trarrà ispirazione per il suo romanzo Il generale Della Rovere. I tedeschi internarono anche sua moglie pur di convincerlo a piegarsi, ma Indro non cedette. Uno ad uno, tutti i suoi vicini di cella vennero fucilati (26 persone). Ma lui non chiese mai la grazia e attendeva soltanto che scoccasse la sua ora. In quelle ore critiche, spunta il nome del « dottor Ugo ».
Il vero nome del « dottor Ugo » era in realtà Luca Osteria, e si trattava di un ex-agente della polizia segreta fascista (la famigerata OVRA). Osteria organizza la fuga dal carcere sia per Montanelli che per un altro suo compagno di prigionia, il tutto con la collaborazione di un ufficiale tedesco, Saewecke, che Montanelli all’epoca non conosceva. Qualcuno versò a Luca Osteria e a Saewecke una forte somma di denaro per corromperli ed organizzare l’evasione, ma chi sia stato il benefattore, non si è mai saputo. Vero è che Montanelli aveva un fitto giro di conoscenze fuori dal carcere, incluso l’allora arcivescovo di Milano il cardinale Schuster. Indro si rifugia in Svizzera per qualche tempo, facendo perdere le sue tracce fino al suo ritorno in Italia, il 25 aprile del 1945.
La rivolta d’Ungheria
Gli anni successivi furono duri: Montanelli era inviso agli anti-fascisti per la sua adesione iniziale al regime, e i fascisti lo disprezzavano perché lo consideravano un traditore. Persino il suo Corriere, commissariato dai partigiani, gli chiuse le porte. Dovette ricominciare dalla direzione della Domenica del Corriere e solo due anni dopo poté tornare a via Solferino. Quando nel ’56 scoppia la rivolta d’Ungheria, Montanelli è in Austria. Sente la notizia alla radio, salta sulla FIAT 600 dell’addetto stampa italiano e corre a Budapest, anticipando tutti i suoi colleghi. Da lì, assiste alla sanguinosa repressione messa in atto dall’Armata Rossa ed elogia il coraggio del popolo ungherese:
« Gli operai [ungheresi] seguivano il corteo degli studenti a Budapest. Quegli studenti erano i loro figli. Erano loro che guidavano la rivolta, ed i padri li seguivano. C’era una solidarietà di classi che nei nostri paesi capitalisti non si trova. Io, l’anti-comunista, queste cose dovetti riconoscerle. »
Il Giornale Nuovo e l‘attentato
Non solo opinionista e cronista: Indro si dedica anche alla divulgazione storica con una serie di libri dedicati alla storia d’Italia, serie iniziata nel 1957 con Storia di Roma con enorme successo di pubblico che spingerà Montanelli a proseguire l’opera fino in età avanzata.
Nel 1974, Montanelli è ormai un affermato giornalista, ma l’aria che tira al Corriere, a via Solferino, inizia a non piacergli: dopo 36 anni si dimette per fondare il suo quotidiano: il Giornale Nuovo (che in seguito diventerà semplicemente Il Giornale).
« Il Giornale nacque quando tutta la stampa italiana era trascinata da un vento di sinistra. Ci voleva una voce che rompesse il coro « .
Provocatorio, politicamente scorretto ma sempre brillante, la creatura di Montanelli si attesta sulle 150.000 copie vendute. Ma la vita sembra avere sempre qualcosa di nuovo ad offrire ad Indro. Dopo la guerra, dopo le dimissioni dal Corriere, iniziano i terribili « Anni di piombo », che vedono Montanelli al centro del mirino.
Le Brigate Rosse, gruppo estremista di sinistra, minacciano giornalisti e politici con una serie di attentati. Indro inizia a girare armato di pistola ma il 2 giugno del ’77 due uomini lo aggrediscono alle spalle e gli piantano 4 proiettili nelle gambe. Indro non riesce a sparare, ha solo il tempo di gridare « Vigliacchi! « .
Ecco la ricostruzione dei fatti, dalle parole stesse di Montanelli:
« In quegli attimi ricordo la promessa che avevo fatto a Mussolini, e a me stesso, quando, bambino, mi ritrovai intruppato nei balilla: » Se devi morire, muori in piedi! » Davanti a questi vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontarmi in faccia, penso, non posso morire in ginocchio. E mi aggrappo alla cancellata dei giardini. Non sto in piedi sulle gambe, ma mi reggo dritto con la forza delle braccia. E quello continua a sparare e a centrare le mie zampe di pollo. Se mi fossi accasciato, se mi fossi inginocchiato davanti a lui, a quell’ora sarei morto « .
Ma a Montanelli, forse più delle pallottole fece male ciò che lesse sul suo ex giornale, Il Corriere della Sera, il giorno dopo: » Milano […] gambizzato un giornalista « .
Nel titolo, non fecero nemmeno cenno al suo nome…
I due attentatori di Montanelli vengono presto identificati ed arrestati: sono Lauro Azzolini e Franco Bonisoli. 10 anni più tardi, durante una visita nel carcere in cui i due sono detenuti, Montanelli non esiterà a stringere loro la mano. Ai giornalisti che gli chiesero il perché di quella scelta disse:
« Se avessero ucciso mio padre o mio figlio, non sarei venuto qui. Se fossimo ancora in guerra, non sarei qui. Ma la guerra è finita, l’offesa è stata fatta alla mia persona ed io ho il diritto di seppellire questo episodio. E’ affare mio « .
La discesa in campo di Berlusconi.
Il Giornale naviga in cattive acque, i debiti si accumulano e Montanelli accetta l’aiuto di un costruttore edile in ascesa: Silvio Berlusconi. Questi diventa socio di maggioranza del quotidiano nel 1979, ma Indro ci tiene da subito a precisare: « Tu sei il proprietario… » disse a Berlusconi « …ma io sono il padrone. Io veramente la vocazione del servitore non ce l’ho « . Ed era vero: non avrebbe tollerato intromissioni alla sua linea editoriale. Ma le cose cambiano nel 1992: arriva l’inchiesta « Mani Pulite » che spazza via la vecchia classe dirigente e Berlusconi decide di « scendere in campo » contro la malapolitica. Nel ’94, pochi giorni prima della fondazione di Forza Italia, il nuovo partito di Berlusconi, Indro Montanelli lascia la direzione del quotidiano, accomiatandosi dal suo editore Berlusconi con una lettera aperta:
« Ho creduto di metterti in guardia da quello che mi sembra un grosso azzardo [la discesa in campo]. A questa mia franchezza hai risposto venendo in assemblea di redazione a proporre un rilancio del Giornale purché adottasse una linea politica diversa per sostanza e per forma da quella seguita da me: e con questo hai sbarrato la strada ad ogni possibile intesa. «
Da lì in poi, i rapporti con Berlusconi si guastarono irrimediabilmente. Montanelli divenne il suo critico più duro, non risparmiando parole velenosissime, che oggi suonano come una vera e propria profezia:
« L’Italia di Berlusconi finirà male, malissimo, nella vergogna e nella corruzione. E sarà stato inutile avere ragione « .
Ma ad 85 anni, Montanelli ha ancora voglia di scrivere e fonda un nuovo quotidiano, La Voce, che vive poco più di un anno. Indro tornerà al Corriere in veste di opinionista con la rubrica La stanza di Montanelli. Il 4 luglio 2001, dalle pagine della sua rubrica, saluta i lettori in vista della pausa estiva; sarà il suo ultimo articolo. Indro Montanelli muore il 22 luglio a 92 anni, lucido fino alla fine.
La sua voce sempre fuori dal coro, il suo piglio duro, l’integrità intellettuale e i suoi modi da gentiluomo hanno contribuito a creare la leggenda di un uomo che non ha mai voluto padroni al di là dei propri lettori ma che non esitava a prendere posizioni, anche controverse, pur di affermare la propria identità, la propria indipendenza. Nell’ultimo volume della sua Storia d’Italia, Montanelli non nasconde l’amarezza verso il suo stesso Paese, ormai divorato dalla corruzione, dalle tangenti, dai partiti politici e chiude la sua opera più importante nel 1997, con queste durissime parole:
« L’Italia è finita. O forse, nata su plebisciti – burletta come quelli del 1860-61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere. Per me, non è più la Patria. E’ solo il rimpianto di una Patria »
Per lui, il comune di Milano ha innalzato una statua che lo raffigura chino sulla sua macchina da scrivere, la sua amatissima Lettera 22, nei giardini pubblici di Piazza Venezia, che oggi portano il suo nome.
Rédacteur et webmaster de RADICI