Gli occhi di don Aniello Manganiello, il prete anticamorra, brillano quando il pensiero va al quartiere di Scampia: a quel popoloso rione don Guanella, sfregiato e degradato da una moltitudine di case popolari occupate abusivamente. Ma anche della chiesa di Santa Maria della Provvidenza, dove per 16 anni è stato sacerdote e animatore; amico, talvolta figlio, all’occorrenza padre dei suoi parrocchiani.
Brillano, i suoi occhi, ma non piangono più. Da quella torrida estate 2010 in cui la Curia di Napoli decise di trasferirlo nell’agiata parrocchia del quartiere Trionfale a Roma. Ne ha versate tante di lacrime. “Io e il quartiere eravamo una sola anima”, dice, esuberante “pretaccio” trasfuso di semplicità, conosciuto dal nord al sud d’Italia come il “parroco anticamorra” in quell’angolo di Napoli, Scampia, mal raccontato nel film Gomorra.
“In questi anni insieme a molti parrocchiani abbiamo sfidato le violenze dei clan, i soprusi, i ricatti, le minacce. Io stesso ho subito intimidazioni molto pesanti: ciononostante non ho voluto che mi fosse assegnata la scorta. Perché, e di questo sono convinto, è nel dna di un prete schierarsi dalla parte di chi subisce le ingiustizie. E di andare fino in fondo”.
“Per amore del mio popolo non tacerò”, diceva il profeta Isaia. Bene, per amore di quel popolo che mi è stato affidato, di fronte a tante prepotenze, sofferenze, dinnanzi a una paura che lo opprime fino al punto di non consentirgli di parlare, di denunciare, ho sentito il bisogno di battermi. Di restituire la fiducia, di rappresentare, per la mia gente, l’esempio di un cambiamento”. Quella stessa proposta di cambiamento che, prima di lui, aveva offerto don Giuseppe Diana, il parroco di Casal di Principe, nel Casertano, e per questo assassinato dalla Camorra una mattina di marzo del 1994.