Una costruzione durata 6 secoli. Voluta da un duca visionario, finanziata dai milanesi e tormentata da mille imprevisti e ripensamenti.
Correva l’anno 1386. A Milano era partito da poco il cantiere per una nuova cattedrale, su iniziativa dell’arcivescovo Antonio da Saluzzo. L’antica basilica di Santa Maria Maggiore ormai era fatiscente e si voleva costruire una chiesa in cotto, come nella tradizione del romanico lombardo. Ma Gian Galeazzo Visconti, il nuovo signore di Milano e cugino dell’Arcivescovo, sognava ben altro per la sua città. Ambiziosissimo, aspirava a diventare duca (ci riuscirà nel 1395) e voleva gareggiare con le maggiori corti d’Europa. La nuova cattedrale doveva perciò essere “una basilica che superasse in grandiosità e magnificenza quante se ne trovavano costrutte a’ suoi tempi, non solo in Italia ma ben anche fuori”, come raccontò lo storico dell’arte Ambrogio Nava nel 1854. Cioè tutta di marmo e ricca di decorazioni e trafori, come le grandi chiese gotiche d’Oltralpe.
Nasce la Fabbrica
Preso dalle sue ambizioni, fu dunque Gian Galeazzo a cambiare la storia del Duomo di Milano. Una svolta che ha anche una data di nascita: il 18 ottobre 1387, quando il duca decretò la costituzione della Veneranda Fabbrica di Milano, istituzione responsabile della costruzione dal punto di vista architettonico, economico e amministrativo. Da subito il Consiglio della Fabbrica ebbe una maggioranza laica, perché, fatto insolito, il committente della cattedrale non era soltanto l’arcivescovo; c’erano anche il principe e la cittadinanza. Come spiega Clara Moschini nel libro Il cantiere del Duomo di Milano (Silvana Editoriale), nel XV secolo dentro il Consiglio operavano, oltre al vicario generale e ai canonici della diocesi, il vicario di provvigione, 3-4 giureconsulti e 12 eminenti cittadini, 2 per ogni Porta della città.
Si trattava di mercanti, artigiani, banchieri, scelti tra le famiglie più prestigiose per assicurare alla Fabbrica prestazioni professionali. E gratuite. Ma anche per garantire la gestione di un cantiere immenso con le modalità di un’impresa moderna. Ogni settimana venivano poi eletti sei “ebdomadari”, che avevano il compito di controllare giorno e notte ogni lavoro, tutti i materiali e le forniture, in nome della cittadinanza milanese.