Perché ne diciamo così tante? Cosa significano? Quale effetto hanno? Per capirlo abbiamo indagato in un’abitudine molto diffusa nella lingua orale e in queste pagine, vogliate scusarcene, ce n’è scappata anche qualcuna (ma per cause di forza maggiore). Abbiamo chiesto a Vito Tartamella, giornalista scientifico e specialista del turpiloquio di parlarcene. Suo il libro Parolacce.
Il primo ad aver studiato le parolacce fu Sigmund Freud: scoprì che le parole oscene servono a esprimere la pulsione sessuale e aggressiva con termini pittorici. E scoprì che le parolacce sono tabù, cioè parole che una società giudica troppo pericolose per parlarne apertamente.
Dopo Freud, psicologi e linguisti hanno sviluppato teorie del linguaggio sempre più complesse, ma era come se le parolacce non esistessero. Anche parlare di tabù era… tabù. Invece, le parolacce vanno incluse nella teoria del linguaggio perché sono parole specializzate nell’esprimere emozioni (ira, odio, eccitazione, frustrazione, gioia, intimità, humour): un linguaggio senza emozioni è anormale quanto una persona senza emozioni.
Questo sfata un mito diffuso: che le parolacce siano solo un orpello degradante, una rozza degenerazione del linguaggio. Svolgono invece funzioni fondamentali. Le parolacce nascono quando, in un gruppo, si crea un sistema di valori binario: da una parte le azioni permesse ed accettate, giudicate buone; e dall’altra quelle vietate e rifiutate, considerate cattive.