In Italia in pochi mesi è avvenuta una rivoluzione. Tutto è cominciato a settembre 2022, con la salita a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, prima donna a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio. Poi, a febbraio 2023, quasi in “risposta” a quell’evento storico, la nomina a segretaria del Partito Democratico di Elly Schlein, prima donna leader della sinistra italiana.
Questi cambiamenti hanno conferito alla Penisola un interessante quanto inaspettato primato: siamo l’unico Paese al mondo in cui a una Premier donna si contrappone una leader di opposizione di sesso femminile. Insomma: in una manciata di giorni, nell’Italia dell’astensionismo, della sfiducia e delle leadership maschili, si è assistito a un rovesciamento totale del quadro, almeno dal punto di vista del genere. Ed è stato piuttosto curioso che Schlein prima, Meloni dopo, si siano entrambe appellate a una frase della femminista Lisa Levenstein che dice: “non ci hanno viste arrivare”. Il che dimostra come, ancora oggi, lo spiccare di figure femminili sembra essere possibile solo in presenza di congiunzioni astrali quasi miracolose. La Presidente del Consiglio si è infatti sempre definita l’”underdog” della politica, la sfavorita. Mentre la segretaria del Pd ha rovesciato il voto degli iscritti al partito e, in barba a tutti i sondaggi, ha strappato una vittoria che nessuno si aspettava, trascinando ai gazebo (dove tutti gli elettori potevano votare) giovani e donne. Entrambe categorie che, forse per la prima volta, si sono sentite rappresentate da una sinistra diventata negli anni stantia, inconcludente, spenta, troppo in balia di dissidi interni per poter agire davvero. Anche per questo motivo Elly Schlein è sembrata la risposta perfetta a Giorgia Meloni, l’unica davvero adatta a portare avanti un’opposizione serrata e decisa. Se infatti è vero che ci sono due donne alla guida di quelli che sono al momento i due principali partiti in Italia (FdI e Pd), è anche vero che quelle due donne non potrebbero essere più diverse tra loro.
Schlein ha fatto della lotta alla povertà e del salario minimo obiettivi cardine, Meloni ha invece subito ridimensionato il reddito di cittadinanza, conquista del Movimento 5 Stelle. Schlein parla di emergenza climatica e conversione ecologica, Meloni ne teme gli effetti e si schiera contro l’”ambientalismo ideologico”. Schlein chiede a gran voce un mare nostrum europeo, Meloni chiude i porti e parla di “aiutare i migranti a casa loro”. Schlein apre alle droghe leggere anche –e soprattutto– per contrastare le mafie, Meloni è convinta proibizionista. Per Schlein l’aborto è un diritto, per la ministra messa da Meloni alle Pari Opportunità (Eugenia Roccella) non dovrebbe esserlo. Per Schlein anche eutanasia e suicidio assistito sono diritti, per Meloni no. E lo stesso vale per matrimonio egualitario e utero in affitto, che sono di nuovo al centro del dibattito. Ma le differenze non si fermano ai meri programmi politici. Se infatti la Presidente del Consiglio ha sempre rivendicato il suo essere madre, cristiana e italiana, la segretaria del Pd non ha mai nascosto di essere bisessuale, non credente e cosmopolita (possiede tre cittadinanze, quella italiana, quella svizzera, dove è nata, e quella statunitense per via del padre). Tanto che al tormentone di Meloni “io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre e sono cristiana” Schlein ha replicato con un altrettanto potente “sì sono una donna, amo un’altra donna e non sono madre, ma non per questo sono meno donna”. A dividere, in prima battuta, queste due leader è proprio la visione di donna che vogliono veicolare attraverso i loro programmi e le loro proposte. Da un lato il conservatorismo, dall’altro il progressismo. Da un lato la tradizione, dall’altro l’innovazione. Ed è infatti proprio sul terreno del femminismo che Schlein ha spesso sfidato Meloni. In occasione della Giornata internazionale dei diritti della donna dello scorso 8 marzo, ad esempio, la segretaria del Pd è tornata a sottolineare “la differenza tra una leadership femminile e una femminista” perché “non ci aiuta ad avanzare il semplice fatto di avere una Premier donna se non lavora tutti i giorni per le altre donne”.
Mentre Meloni, che è donna ma preferisce farsi chiamare “il Presidente” al maschile, quando parla di femminismo lo fa quasi sempre per combattere l’“ideologia gender”, sottolineando come “maschile e femminile sono radicati nei corpi e proclamarsi donna o uomo al di là di qualsiasi percorso chirurgico, farmacologico e amministrativo andrà a discapito delle donne”. E al grido delle femministe che dopo la vittoria di Meloni hanno affermato di non farsene nulla di una leader che agisce secondo schemi patriarcali, è arrivata la risposta secca della Premier che, replicando in Aula a una deputata dell’opposizione, ha detto sicura dal trono del vincitore: “Le sembra che io stia un passo indietro agli uomini?”. E come darle torto. Quel che è certo è che entrambe si trovano oggi di fronte a una nuova sfida: Schlein dovrà ricostruire un partito che ha perso compattezza e identità. Meloni dovrà affrontare una donna che dà l’impressione di non voler mollare un centimetro.
In ogni caso, finalmente (anche se in ritardo), l’Italia riesce a vedere le donne ai posti di comando. E, ancora più importante, le bambine e le ragazze italiane riescono a vedere qualcuno come loro al potere. A dimostrazione che alle donne non servono per forza le quote rosa per arrivare al vertice. Certo, possono aiutare. Ma c’è bisogno anzitutto di spazio. E, soprattutto, di fiducia.