Lorenzo Tosa ripercorre un evento che potrebbe sembrare quantomeno sorprendente per i lettori francesi: il raduno, ogni anno a Roma da oltre quarant’anni, di centinaia di nostalgici del regime fascista e l’esibizione di gesti e slogan più che espliciti in tutta legalità. In tutta legalità, davvero?
È il 7 gennaio di quest’anno, ore 19 circa. Trecento uomini in “camicia nera”, provenienti da un brodo primordiale di militanti neofascisti, gruppi di estrema destra e mondo Ultras, si sono appena dati appuntamento in via Acca Larentia, a Roma. Si dispongono in formazione militare, tendono il braccio destro in alto in un saluto romano e urlano tre volte “Presente!” come il numero dei camerati uccisi nel 1978 per mano di gruppi armati di estrema sinistra, in quella guerra tra bande che era diventata ormai la Roma dei tardi anni ’70.
Ogni anno, in questo giorno, il quartiere si ferma, gli scuri vengono sbarrati, i figli del Tuscolano hanno l’ordine di fare la strada lunga per evitare di imbattersi in quel raduno di nostalgici dichiarati che si muovono indisturbati davanti alla targa in ricordo dei camerati caduti. Il tempo, in via Acca Larentia, il 7 gennaio, sembra essersi fermato a quasi un secolo fa, quando era normale assistere ad adunate squadriste che battevano queste strade mascella alta e camicia nera, scortate dall’occhio benevolo dei passanti e dalla compiacenza delle forze dell’ordine. Solo che non è il 1938 ma il 2024 e, nel frattempo in Italia, pur coi passi incerti della nostra zoppicante democrazia, ci siamo dotati di due leggi – la Scelba e la Mancino – che vietano e puniscono rispettivamente l’apologia di fascismo e qualsiasi condotta riconducibile al fascismo.
Allora com’è possibile che trecento militanti di estrema destra possano oggi darsi appuntamento alla luce del sole, sempre alla stessa ora dello stesso giorno, senza che nessuno tra governo, questura e forze dell’ordine muova un dito? Come posso spiegare a un cittadino francese che squadre di fascisti organizzati hanno potuto rialzare in modo così sguaiato testa e braccio nell’indifferenza e nell’impunità generale? E, più ancora nel dettaglio: ma il reato di apologia del fascismo tanto decantata esiste davvero o è solo una formula buona per riempire qualche post su Facebook colmo di sacrosanta rabbia e indignazione?
La domanda è legittima, soprattutto alla luce di una recente controversa sentenza della Corte costituzionale, il massimo organo giuridico italiano, che il 18 gennaio, in seguito anche ai fatti di Acca Larentia, ha stabilito che è ammesso il saluto romano e che questo non costituisce reato se fatto all’interno di commemorazioni, purché non si ravvisi il concreto pericolo di rifondazione del partito fascista.
Una decisione non del tutto sorprendente, accolta da buona parte della maggioranza di governo post-fascista come una vittoria attesa anni e la dimostrazione definitiva che “essere fascisti non è reato”. Ora – è la loro tesi – lo dice anche la Corte costituzionale. Ma è proprio così? Davvero, a distanza di 77 anni dall’avvento della democrazia in Italia, dobbiamo rassegnarci ad assistere impotenti a un branco di nostalgici che inneggiano apertamente a uno dei regimi più sanguinari, razzisti e liberticidi che l’Europa abbia mai conosciuto?
Non esiste una risposta unica e univoca. Dal punto di vista politico, certamente no, anzi ognuno di noi è chiamato, oggi più che mai, a scendere in piazza per presidiare quel metro quadrato di democrazia per cui i nostri nonni hanno combattuto e vinto. Ma, se parliamo da un punto di vista strettamente legislativo, la questione è assai più complessa e ambigua. Basta un tuffo a ritroso di qualche decennio per rendersi conto che i nostri padri costituenti, nell’immaginare la nostra meravigliosa carta, sono stati troppo indulgenti nei confronti del dissolto partito fascista e di chiunque lo avesse rappresentato e lo avrebbe rimpianto.
La XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana recita testuale: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Poi, però, la riga sotto, precisa, che, in deroga all’articolo 48, i capi responsabili del regime sono esclusi dalla possibilità di votare ed essere eletti per non oltre un quinquennio. Tradotto? Nel giro di cinque anni tutti coloro che furono protagonisti a vario titolo e a differenti livelli del Ventennio tornarono a riappropriarsi dei vecchi incarichi e ad esercitare la propria influenza sul Paese, e così i loro eredi politici e le generazioni successive di fascisti, riammessi con una passata di straccio nella vita democratica di cui per anni avevano teorizzato la distruzione.
Nell’ottimismo positivista tipico di quegli uomini e di quell’epoca, i padri costituenti credevano che il fascismo avrebbe finito per riassorbirsi naturalmente nella pancia del processo democratico, fino ad esaurirsi. Avevano sottovalutato il potere di una narrazione persuasiva e radicata nei legami sociali e familiari, che per discendenza diretta è arrivata, tra alterne fortune, sino a oggi. Le stesse leggi Scelba e Mancino, per quanto rigorose, hanno sempre poggiato i piedi sul terreno friabile di un impossibile ambito di applicazione, finendo per diventare una scatola vuota.
È in questo fragile magma giuridico e legislativo che si è mossa nelle settimane scorse la Corte costituzionale, arrivando a una decisione destinata a infiammare ulteriormente il dibattito e a spostare ancora più in là l’asticella della tolleranza nei confronti di quello che è – o dovrebbe essere – a tutti gli effetti un reato, a prescindere dal contesto o dalle intenzioni.
La sensazione è che spesso siano rimasti solo i cittadini, qualche giornalista illuminato, pochi politici, a pretendere il pieno rispetto della Costituzione (e, se necessario, un suo aggiornamento), mentre il governo tace e la Corte arriva addirittura a sdoganare le manifestazioni di stampo marcatamente fascista.
Non è più il tempo della rabbia o della mera indignazione. Di fronte a fatti gravissimi come quello di Acca Larentia, e molti altri analoghi, servirebbe un’ondata di resistenza culturale, sociale e collettiva talmente forte da costringere i politici a mettere mano una volta per tutte ai troppi vuoti legislativi esistenti. Altrimenti, di fronte a quel cittadino francese, saremmo costretti ad ammettere che quella scena, quelle camicie nere, quelle braccia tese, quelle grida “Presente!”, quello spettacolo miserabile, indecente, ci assomiglia molto più di quanto siamo disposti ad ammettere. E a combattere.
L.T.
Lorenzo Tosa, 35 anni, giornalista professionista, grafomane seriale, collabora con diverse testate nazionali scrivendo di politica, cultura, comunicazione, Europa. Crede nel progresso in piena epoca della paura. Ai diritti nell’epoca dei rovesci. “Generazione Antigone” è il suo blog.