Sembrava che il sole aprisse la strada, indicasse da che parte andare, quali vicoli evitare e tutto ciò, rimbalzando sulle case bianche silenziose e disordinate.
Era da un po’ che camminavamo e il piccolo Aziz mi faceva da guida improvvisata per portarmi al café Hafa, un po’ fuori la Medina di Tangeri. Si, proprio quel café che ha visto i Beatles e gli Stones, rafforzando il mito di una città aperta e cosmopolita.
I dieci forse dodici anni di Aziz, su quelle sponde di Mediterraneo sono una cosa seria: nel mese di luglio comincia un’altra scuola, quella della caccia ai turisti da accompagnare per la città.
Aziz è un bambino educato e garbato, ma io resto sospettoso, senza ragione, dimenticando la buona ospitalità di questa gente, della quale ho perso l’abitudine. Mi accorgo così di essere troppo occidentale, un italiano emigrante, viaggiatore: vengo dall’altra parte del mare dove l’Italia si stende come un braccio teso ad accogliere; un pontile di terra e di gente. Si stendeva, ora non più. Adesso ci resta il mare, quel mare, bene comune, che brilla, sempre.
Il caldo, in questa estate marocchina, rende ripida anche una leggera salita e non so proprio dove stiamo andando. Tra i palazzi, il mare in lontananza apre un varco sul lato della strada, la luce vi entra quasi con violenza lasciando trapelare un pavimento di rocce che sovrasta un burrone fino al mare. Tanti giovani sono seduti lì, da soli, in coppia o tra amici. Il vento scuote i loro djallaba, smuove i loro veli. Nessuno parla, tutti sono rivolti verso il mare. Ma il mare è solo un pretesto. Il cielo chiaro all’orizzonte è uno schermo su cui appare limpida e immobile l’immagine della Spagna, lontana solo qualche chilometro. E tutti sono rivolti, pensierosi, verso quel pezzetto d’Europa. Così anch’io mi metto a pensarci come mai prima. Viaggio, passaporto, aereo, tutto logico, facile, automatico. Passare dall’altro lato del mare per noi europei è solo questione di organizzazione e di volontà.
Poco più di quattordici chilometri dividono due mondi. Chissà se Aziz tenterà la traversata tra pochi anni. Spero di no. Che troverà la forza di restare nelle proprie origini eccellenti. I ragazzi esposti al vento che guardano la Spagna sognano quell’Occidente, quell’Eldorado al quale non possono accedere: da un lato hanno abbandonato i sogni di costruire un paese migliore. Dall’altro farebbero di tutto per quella “ricchezza” che televisione e leggende di altri migranti hanno insinuato nelle loro menti.
Mi sento piccolo e fuori posto. Sono imprigionato nella mia mobilità, troppo facile per capirli fino in fondo. Non abito più il mio paese d’origine, la mia Italia e me ne dispero dentro, quasi intimamente. Ma nessuno mi impedisce di andarci. I miei cari, i miei amici, il mio dialetto napoletano sembrano lontani ogni giorno. Ma nessuno di quei giorni è fatto di divieti. Sono un migrante di lusso. Fuori dal mio paese, ma dentro un sistema che facilita gli spostamenti di chi ci è già dentro. Per gli altri, per chi ne è fuori è legge del più forte, del più fortunato. Quello che sopravvive alle traversate, agli scafisti, ai CIE (centri di identificazione e di espulsione), all’indifferenza. Intanto mi siedo e scruto l’orizzonte, da questa platea di Tangeri illuminata dal sole. Penso alle traversate, ai volti dei tanti spettatori come me. Alla parola speranza, al concetto di futuro. È ancora questo oggi il mio Mediterraneo?