L’amministrazione dello Stato italiano, con i suoi tanti difetti così difficili da sradicare, è anche il risultato delle eredità degli Stati regionali preunitari. Borbonici, sabaudi, papalini, austriaci… un bel rompicapo per i padri fondatori dell’Unità nazionale. Da ricomporre non solo nella geografia, ma anche nella gestione della cosa pubblica: i territori degli antichi Stati italiani portavano, infatti, con sé tradizioni amministrative molto diverse tra loro. Cosa e quanto, di ognuna di queste eredità, è sopravvissuto nel nostro attuale apparato burocratico, nei pregi come nei difetti? Lo abbiamo chiesto allo storico e archivista Carlo Maria Fiorentino.
Quanto “pesa” l’amministrazione piemontese nell’eredità statale italiana?
Dopo l’Unità d’Italia nel 1861 fece ovviamente la parte del leone, visto che fu estesa al resto della Penisola. Si trattava di un sistema improntato al modello dell’accentramento francese, di origine giacobina e napoleonica. Questo tipo di amministrazione (molto diverso da quella del Lombardo-Veneto e del Granducato di Toscana) esercitava un controllo diretto anche a livello locale dove persino nei comuni il sindaco era di nomina regia. Questa forte intromissione dell’amministrazione centrale dello Stato in quella degli enti territoriali suscitò parecchi malumori, in particolare della classe dirigente lombarda, che aveva goduto sotto l’Austria di una più grande autonomia amministrativa.
Si può dunque parlare di “piemontesizzazione” della Penisola, come qualcuno ha sostenuto?
No, perché già dopo la Prima guerra d’Indipendenza (1848-49) il parlamento di Torino aveva accolto emigrati provenienti da tutte le parti d’Italia e, molti di questi, ancor prima dell’Unità, ebbero un ruolo di primo piano nell’amministrazione statale sabauda. Anche i funzionari provenienti dagli ex Stati regionali (in particolare lombardo-veneti e toscani), favorirono con le loro conoscenze riforme che ridussero certe asperità del sistema piemontese.