Fu il pittore delle Madonne e il rivale di Michelangelo, venne corteggiato da papi e cardinali, ma morì sul più bello.
Era bello in volto, eccellente sul lavoro, educato alla modestia e al bon ton. Era anche ruffiano a sufficienza per sfruttare bene tutte le doti precedenti. Che sia stato l’artista-simbolo del Rinascimento, ex aequo con Leonardo e Michelangelo, è indubbio; ma rispetto ai due rivali conquistò un primato assoluto, la produzione di Madonne: in 22 anni di attività ne dipinse ben 25. E poiché si dice che nei loro volti riproducesse quelli delle sue amanti, se ne deduce che privo di donne non fu mai.
Raffaello Sanzio (ovvero Santi o de’ Santi) nacque a Urbino il Venerdì santo del 1483, cioè nove anni prima dello sbarco di Colombo in America. E morì a Roma nel 1520, ancora di Venerdì santo, proprio mentre il conquistador Hernan Cortés metteva a frutto le scoperte colombiane massacrando gli Aztechi del Messico. Ma quegli eventi d’oltremare, destinati a rivoluzionare il mondo, non toccarono neanche di striscio la vita del nostro, che si dipanò interamente fra Urbino, Perugia, Firenze, Roma e poche altre località del Centro Italia.
Del resto, perché mai Raffaello avrebbe dovuto allargare il suo orizzonte? Per un artista dell’epoca, il Centro Italia bastava e avanzava: su Urbino aleggiava lo spirito di Federico III di Montefeltro, il duca-mecenate che aveva “sponsorizzato” tra l’altro Piero della Francesca (1415 ca.-1523), il pittore più trendy dell’ultimo scorcio del’400; Firenze, poi, era la capitale dei Medici, che Lorenzo il Magnifico (1449-1492) aveva trasformato in capitale culturale d’Europa.
Quando Raffaello nacque, in quel panorama effervescente solo Roma era un po’ defilata, dedita più ai torbidi intrighi fra cardinali che ai gioiosi riti delle Muse. Ma il vento cambiò nel 1503, con l’avvento di Giulio II, il papa-re che aprì il cantiere di San Pietro, ordinò gli affreschi della cappella Sistina e ridisegnò la città, trasformandola in un Eldorado per architetti, pittori e scultori a caccia di commesse. Scultore, Raffaello non fu mai; ma pittore e architetto sì: così dal 1508 divenne una star della corte papale.
A bottega da papà
Ma andiamo con ordine. In principio fu Urbino, e non solo perché il futuro “Stakanov delle Madonne” emise lì i suoi primi vagiti. Nella città marchigiana, infatti, Raffaello apprese i rudimenti della pittura da suo padre Giovanni Santi, un artista di corte dei Montefeltro che nessuno ricorderebbe se non avesse avuto un figlio. L’umanista toscano Giorgio Vasari (1511-1574), che di “Rafael da Urbino” scrisse una biografia traboccante di lodi, di Santi senior dice invece spietatamente che era “non molto eccellente, anzi non pur mediocre”.
A Urbino e nelle Marche, comunque, Giovanni era molto gettonato. E Vasari riferisce che in tutti i suoi lavori “facevasi aiutare” dal figlio, il quale “ancor che fanciulletto, lo faceva il più e il meglio che e’ sapeva”. Anche perché il maestro-papà riponeva grandi ambizioni nel futuro del figlio e di conseguenza era quanto mai esigente per il suo presente, tanto che “non gli lasciava metter punto di tempo in mezzo né attendere ad altra cosa nessuna, acciò che più agevolmente e più tosto venisse nell’arte di quella maniera che egli desiderava”.
Fu una doppia fortuna papà Giovanni: intanto perché insegnò al figlio a maneggiare i pennelli; poi perché morì presto (1494) e quindi non fece in tempo a contagiarlo con la propria mediocrità. Così l’orfano Raffaello, a soli 11 anni, fu costretto a marciare sulle sue gambe, anzi sui suoi pennelli. E a 15 ebbe forse la sua prima fidanzata. Badate bene: quest’ultima notizia non è ricavata dal Vasari, ma dedotta dalla data della prima Madonna dipinta, un affresco nella casa di famiglia, che tutt’ora si può vedere a Urbino.
Dal Perugino
La seconda patria di Raffaello fu Perugia, anche se non è affatto chiaro quando e come avvenne l’incontro fra la città e l’artista. Sul punto, Vasari racconta che fu lo stesso Giovanni a portare il figlio nel capoluogo umbro per introdurlo nella bottega del Perugino. Ma gli storici sono scettici: “Gli archivi” sostiene Enzo Gualazzi, biografo del pittore, “affermano che Raffaello può essere dato assente da Urbino soltanto a partire dal 13 maggio 1500” cioè quando il padre era già morto e sepolto da sei anni.
In fondo però le date contano poco. Di più importa che in Umbria Raffaello non si limitò a fare il ragazzo di bottega del Perugino e cominciò invece a brillare di luce propria: soprattutto a Città di Castello, dove dipinse prima una pala per il convento di Sant’Agostino (distrutta da un terremoto nel 1789), poi una crocifissione per la Chiesa di San Domenico, e infine un celebre Sposalizio della Vergine che rappresentava una sfida aperta al suo maestro, che poco tempo prima aveva dipinto lo stesso soggetto per la cattedrale di Perugia.
Inevitabile il confronto fra le due opere, simili per struttura ma non per qualità: «Un confronto che ancora oggi sembra pensato da una mente sadica per umiliare il vecchio maestro» commenta un altro biografo di Raffaello, l’esperto d’arte rinascimentale Antonio Forcellino. Dettaglio curioso: nello stesso anno (1504) Raffaello, poco più che ventenne, dipinse anche un ritratto del Perugino, che a occhi moderni appare come una sottile beffa: se il maestro umbro ha tramandato a noi la sua immagine, deve dire grazie al suo allievo-sfidante.